martedì 24 marzo 2020

Ti chiamo poi io quando riesco


Ricorda una frase adolescenziale di qualcuno vorresti fosse il tuo fidanzato e non è, invece è una figlia, che starà via quindici giorni, e, a quanto pare, chiamerà poco.
Devo averla detta anch’io questa frase, dopo avere fatto circa un’ora di fila alla cabina del telefono del campeggio di Praia a Mare, dove alla sua stessa e identica età andai con la mia amica Daniela, per i medesimi quindici giorni.
Potrei confondermi, ma ho un vago ricordo di Daniela che mi dice, mentre io aspetto con le monete in mano: “Puoi dire a tua madre di chiamare la mia e dire che sto bene?”
Ecco, semplificando, io penso che il mondo si divida in due categorie di persone: quelle che si ammazzano pur di non mancare la telefonata a casa, e quelle, più pratiche, che mandano un segnale di fumo e poi ciao.
Io faccio parte della prima categoria, Daniela della seconda. Questo spiega perché mia figlia è a due ore di volo e la sua a circa dodici, la mia ha un telefono, e la sua no.
Nonostante ciò, Giulia fa parte del secondo gruppo, una che non ha nostalgia di casa, del suo cane, di suo fratello. È probabile che le manchino il suo letto e il wifi, per il resto non pensa minimamente di usare l’alta tecnologia di cui dispone per inviare che so?, una foto della sua stanza. Io sono felice che sia così, e non sono neppure la madre chioccia che guarda il telefono ossessivamente, sono solo curiosa di sapere dove sia, chi incontri, come si svolga la sua giornata. È solo voglia di partecipare.
E poi c’è che l’unica vera telefonata ricca di dettagli è la prima, quando, per carattere e senso naturale di positività e ottimismo, la mia ragazza vede tutto grigio…”il posto è isolato, siamo in mezzo a un bosco, la mia compagna di camera non è arrivata, non c’è neanche un bar…”, dopo passa, naturalmente, magari il secondo giorno, quando si è ambientata, si fa coraggio e va a scoprire persone, luoghi. Solo che non lo dice, almeno a me, e mi tocca passare i restanti quindici giorni immaginandola alla Saint Paul School, aspettando che sbuchi fuori Suor Grey che la espelle, o Iriza che la bullizza.
Comunque non ho poi neanche tutto questo tempo per sfrangermi di malinconia, sono sotto sequestro, ormai da un paio d’anni, il mio rapitore ha cinque anni e mezzo, e, peggio, soffro di sindrome di Stoccolma.
Lui usa sistemi di tortura corporale e psicologica: quando meno me lo aspetto, prende la rincorsa, salta, raccoglie le ginocchia e mira allo stomaco. Banzaiiiiii, urla. E questo è nulla.
La mattina, quando si infila nel mio letto, io mi avvicino con le labbra ai suoi capelli, lo bacio, lo annuso, gli sussurro all’orecchio: “ti voglio un mondo di bene”
“Io no” ha risposto lui un giorno.
Eccoli i miei ragazzi. Poi mi amano, lo so, lui un po’ di più, anzi, è capace di dire cose struggenti, che annoto religiosamente in un quaderno da tenere lì per gli anni a venire, quando anche lui sarà diventato un ragazzo schivo e silenzioso.
Per ora, che posso, mi tengo stretta il mio sequestratore, e mi avvio verso la prima vacanza a due. Sono un po spaventata, lo ammetto. Se non mi faccio sentire per un po’, non vi preoccupate. Chiamo poi quando riesco.

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