martedì 24 marzo 2020

LECTIO MAGISTRALIS



Mio padre non ha mai cucinato regolarmente, voglio dire, non era quello che si metteva a fare un risotto, uno spaghetto alla carbonara, o un arrosto di vitello.
Sapeva fare solo dolci. Nei miei ricordi di bambina c’è una grande bacinella rossa come quelle per la biancheria, e lui che ci versa tonnellate di cioccolato fuso, chili di miele, poi mandorle, noci, cedro candito sminuzzato, e mescola, mescola, mescola con un cucchiaio di legno.
Prima di Natale quella grande bacinella si trasformava in trenta certosini, la metà venivano regalati ad amici e parenti, con l’altra metà arrivavamo fino a Pasqua inoltrata.
In casa mia si procede per passioni, un giorno i certosini e la loro pesantezza hanno arretrato per fare posto ai bomboloni fritti, e, devo dire, è stato un momento commovente dell’adolescenza, per poi deviare sulla produzione quasi professionale di raviole e pinze, pasta frolla ripiena di mostarda di mele cotogne.
Ora, che sono adulta, e in cucina non sono all’altezza ma ci provo, non mi sono mai avvicinata ai mostri sacri di mio padre, molto più comodo passare la domenica a prendere il vassoio pronto, che, fino a poco tempo fa, veniva preparato con precisione e regolarità.
Arriva oramai troppo presto il giorno in cui i miei figli si litigano l’ultimo pezzo di dolce, e si deve ripiegare su delle gocciole prive di affetto e passione.
Qual’è il punto?
Il punto è che mio figlio non ha mai mangiato un gelato, una tavoletta di cioccolato, un cucchiaino di nutella, però ama disperatamente le raviole con la mostarda. È un mistero, lo so, ma tant’è.
E non raviole comuni, comprate al forno, nel migliore forno di Bologna. No, signori. Quelle prodotte sul tagliere di mio padre, solo ed esclusivamente quelle.
Il nonno, brav’uomo, le cucina quando e come può, certo che gli ottant’anni appena compiuti e il pace maker appena applicato al cuore, hanno leggermente indebolito la sua attività di cuoco.
Eccoci al passaggio di testimone, è il momento, l’eredità è segnata, d’ora in avanti è la sottoscritta ad avere la responsabilità, e, a dire il vero, il gusto, di provvedere al nutrimento e alla sopravvivenza di zuccheri nelle vene di mio figlio. È giusto così.
Pare facile.
Vengo convocata dai miei genitori, è un rito di iniziazione, tutto è già pronto sul tavolo, cominciamo: sciogliamo il burro, aggiungiamo zucchero, uova, mescoliamo, facciamo un cratere di farina, cominciamo a impastare, con le mani? Macché. Con una spatola da ferramenta. Non si può discutere, la spatola è l’elemento fondamentale. Mi si dice. E spatola sia, devo suggerirla alla Parodi.
Stendiamo impasto con mattarello, lo spessore è a sentimento. Ma come? Il diametro dei cerchi invece è l’ingrediente segreto. Mi toccherà rubare uno dei calici rosa da acqua, non da vino, da casa di mia madre, lo so.
Posizionare i dischetti in file da cinque.
-Perché cinque?
-Che domande fai? Per contarle più in fretta.
-Ah, certo, con quel che abbiamo da fare!
Un cucchiaino di mostarda, ma un cucchiaino col manico lungo, da cocktail, e chi ce l’ha?
Via, si chiude, in forno.
-Hai le teglie di alluminio?
-Boh, sì.
-Come boh?
-Sì, sì, credo di averle.
-Però hai forno elettrico.- Smorfia di disappunto. Alzo le braccia.
Dodici minuti al primo controllo, non tredici, non undici, dodici. Venti minuti massimo consentito, certo con il forno elettrico…ancora disappunto, ma con un pizzico di insofferenza.
Lectio magistralis su dolci alla bolognese. Iginio Massari è un dilettante.

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