sabato 24 novembre 2018

LA FORTEZZA DELLA SOLITUDINE

-Ti puoi mettere le scarpe che andiamo a prendere Giulia?-
-Io non vengo, sto qui da solo-
-Non puoi stare qui da solo, non hai neanche cinque anni, mettiti le scarpe-
-Io voglio stare qui da solo, io sono la fortezza della solitudine-
Come gli vengano certe frasi devo ancora capirlo. Mi ammutolisce.

Lui è così, definirlo speciale non è abbastanza, stravagante? Forse, imprevedibile? Di certo. Ripercorro alcune scene banali ma non troppo:
Fila alla cassa del supermercato, quando gli lascio prendere un ovetto di cioccolata, che non mangerà, ma c’è un super pigiamino come sorpresa e non riesco a trattenerlo. Tanto che lo apre mentre riempio le borse. Salvo poi impiastricciarsi tutte le mani.
L’attimo dopo è una signora di una certa età che mi guarda sbigottita, perché le mani impiastricciate di cioccolata si stanno pulendo sul di dietro del suo cappotto, sfortunatamente beige. Io non so neppure cosa dire, mi scuso, mi riscuso, offro di occuparmi del lavaggio a secco. La signora se ne va scuotendo la testa.

Festa di compleanno di una compagna di classe, arriviamo sotto una piogerella fine, sotto l’ombrello che vuole tenere lui, quando arriviamo mi accorgo che le feste sono due, in stanze attigue, faccio fatica a orientarmi io, figuriamoci lui. Comunque individuo la nostra, conosco un paio di madri, conosco meglio i bambini, e mi siedo, non tranquilla, lo osservo, aspetto. Chiaramente elegge come festa quell’altra, forse ci sono più maschi, più palloncini, più monopattini da rubare. Infatti ne ruba uno, poi un altro. E io sto lì, in una stanza piena di sconosciuti, c’è  un vecchio compagno di liceo, che sembra riconoscermi, mi guarda interrogativo.
No, non sono invitata, ci siamo infiltrati. Scappiamo appena i proprietari legittimi dei monopattini strillano come disperati, e lui, per consolarsi si rifugia in uno sgabuzzino, e prende la borsa di una mamma e il di lei telefono.
-Mi accendi questo coso? -
-Ti dò il mio, però andiamo-
-Si andiamo, non mi piace questa festa, posso spegnere le candeline prima?
-No-

Siamo ai giardini, di solito non succede nulla di inquietante, tranne abbracciare qualche albero, comunque non disturbiamo nessuno. Di solito.
Ruba nuovamente un monopattino, ma ai giardini è lecito,  lo fanno un po’ tutti, chè se hai la bicicletta vuoi il monopattino, se hai una palla, vuoi la macchinina, e viceversa, insomma, situazioni comuni.
Con destrezza recupero il monopattino, lo rimetto dov’era prima, mi allontano quatta quatta.
-Sei la mamma di ieri? Quella della festa?
Beccata.
Niente è la mamma a cui abbiamo rubato il telefono, la mamma del bimbo alla cui festa ci siamo infilati meno di ventiquattrore prima.
Per fortuna sorride, ha un paio di figli, dice di capire, anche se non credo del tutto.

Noi siamo questi qui, lui è questo qui, che va a un’altra festa e in quattro secondi quattro, tempo di appoggiare la borsa e la giacca su una seggiola, e ha già smontato un castello di bicchieri rosa.
Ci riprende la nonna, rifaccio il castello, mi scuso, tanto so che non serve, altri quattro secondi e so che lo rismonterà.
Sono così stanca di chiedere scusa che mi allontano, intravedo una birra, la apro, la bevo. La nonna mi scruta, da lontano, lui per fortuna è scomparso sotto un trionfo di palline.

Domani avremmo un’altra festa, ha detto che non ci vuole andare, che sta bene a casa sua. Non dovrei, ma tiro un sospiro di sollievo.
-Giorgio sai che tra un po’ è Natale? Sai chi è Babbo Natale?
-No-
-E’ un signore vecchio e buono che vive al polo nord e che a natale porta tanti regali a tutti i bambini. Se gli scriviamo una letterina, puoi chiedere il regalo che ti piace. Che dici? La scriviamo la letterina?
-No-
-Perchè no?-
-Non li voglio i regali di Babbo Natale, che li porti agli altri bambini-

Ecco, appunto. Mio figlio: la fortezza della solitudine.

martedì 16 ottobre 2018

L'ILLUSIONE DI UNA MADRE

Che gli adolescenti siano tutti, più o meno, ruvidi e sfuggenti, credo sia un dato di fatto. È proprio una fase, non è necessariamente carattere o indole, è proprio un momento in cui se ti avvicini, semplicemente, pungono.
Io, che riccio lo sono quasi di professione, tento ogni tanto, con passo felpato, in timido silenzio, di avvicinarmi, di fare una carezza, a sorpresa, sui capelli, sul viso. Di più non azzardo.
Sarei ingiusta se non dicessi che lei ogni tanto mi abbraccia, ma senza grande trasporto, e perlopiù quando sono così stanca e nervosa che pungo pure io, come un adolescente.
Viene immensamente più facile coprire di baci e di carezze un piccolo ragazzino di quasi cinque anni, età in cui si lasciano stritolare, baciare, annusare, mordere.
Abbandonarsi alle smancerie con i bambini è semplice. Naturale. Non hanno alcuna resistenza, alcun filtro, ritrosia, timidezza.
Poi è un lunedì mattina, non sono neppure le sette, io dormo come al solito sul bordo del letto, in mezzo c’è il despota di cinque anni, e arriva lei.
-Cos’è successo?-
-Niente. Posso stare un po’ qui?-
-Certo.-
Ecco. È uno dei momenti in cui accostarsi, quando ha le difese abbassate e tentare, che so, un bacio sulla fronte.
Allungo una mano, supero il piccolo despota che si frappone sempre fra me e lei, ma ce la faccio, con il dorso della mano riesco ad accarezzare una guancia. La mia bambina. Lei fa una cosa che scrivo a costo di strappare dei cuori, ma prende la mia mano, se la infila tra la guancia e il cuscino, e la bacia.
Ci deve essere un disastro dietro l’angolo, un tre in matematica. Una sospensione. Insomma una catastrofe incombente.
-Tutto bene?- Chiedo ancora
-Sì. Solo che la mia camera è invasa da cimici, api e moscerini.
-Forse hai fatto un brutto sogno.-
-No, ho sentito le cimici volare.-
Questo scambio non basta a togliermi l’emozione. Dopo alcune ore se ci penso sono ancora commossa, e felice. Lo racconto a suo padre. Si commuove anche lui. La va a prendere a scuola.

Un pranzo tranquillo, allegro.
-Mamma, visto che hai un po’ di tempo, stampiamo le foto? Posso andare sul tuo computer che ne vorrei alcune di quando ero piccola, e anche qualcuna con te, papà e Giorgio.-
Deve avere bevuto qualcosa.
Comunque sì, accendi il computer che arrivo.

Qui di fianco ho un post it azzurro, perché alcune cose che voglio scrivere oramai le devo annotare, altrimenti le dimentico e poi volano via.
Siamo davanti al computer, lei apre una cartella del duemilaeotto, scorre le icone con la solita velocità che fatico a seguire.

-Guarda questa mamma. Qui ti volevo bene.-
Ride. voleva. Vabbè.
-Ti ringrazio. Pensavo mi volessi ancora bene. Stamattina mi hai dato pure un bacio sulla mano.
-Avevo freddo. E tu avevi la mano calda.
-Ah!.
-Eh come eri giovane qui. D’altronde era dieci anni fa.-
Ineluttabile.
-Oddio, ma come eri brutta qui. Ma che taglio avevi? Terribile.
-Anche qui ti volevo bene. Ma un po’ meno.-
Un po’ meno.
-Eccola là.  La balena spiaggiata.-

Fine della commozione struggente. Cinque battute per disintegrare l’illusione di una madre.


venerdì 27 luglio 2018

Loro due


La giovane bevitrice di caffè, e anche di birra, ho poi scoperto, è tornata.
Per vederla al tornello di uscita dell’aeroporto, abbiamo preso la macchina, fatto cinquecentododici chilometri tra andata e ritorno, naturalmente di notte, perché a noi, piace vincere facile.
Comunque eravamo lì, tutti e due, all’una, con l’espressione sconfitta di chi ha lavorato tutto il giorno, ha dormito poco e male, e ha patito il caldo afoso. Con lo sguardo diffidente di chi proprio non ha il coraggio, lì, agli arrivi Schengen di Malpensa, di parlare con altri genitori, mai visti, dell’esperienza unica dei propri figli.
Ci ha telefonato mentre aspettava il bagaglio, per assicurarsi che fossimo lì, non in ritardo come avevo prospettato.
Qualcuno ha lasciato la carta di identità sull’aereo, ti pareva, il gruppo è compatto, - bisogna aspettare- dice la signora Pasqua, coordinatrice, -in una mezz’oretta dovremmo farcela.-
-Mezz’ora?- guardo l’orologio, è l’una
-Vieni fuori, ringrazia tanto la signora Pasqua da parte mia, ma noi andiamo.
Così vengono fuori, lei e la sua amica, la intercetto per prima, le vado incontro, la abbraccio, sono così felice di vederla che vorrei tenerla stretta per un tempo interminabile, però mi stacco, perché voglio anche guardarla bene in viso, gli occhi, i riccioli sulle tempie, o forse è lei che si allontana, solito riccio respingente.
Si avvicina a suo padre, che la avvolge, conosco bene la potenza rassicurante di quell’abbraccio, e la guardo appoggiargli la fronte sul petto, la testa che scompare tra le sue braccia. Quando riemerge i suoi occhi sono lucidi di lacrime.
Che mia figlia abbia con suo padre un rapporto splendido mi rende felice, è ovvio. Che sia un po’ invidiosa della sintonia naturale, dell’alchimia, del loro sentirsi, o parlarsi con gli occhi, altrettanto.
Voglio dire, con tutto quello che ho fatto io nella vita per lei, o anche solo con lei.
Con tutto il tempo, le parole, l'amore, e poi di nuovo il tempo, le parole, o il silenzio, per ascoltare.
Eppure lei si commuove a rivedere lui. non me.
È meraviglioso-direte- lo è, in effetti, per la ragazza che è oggi e per la donna che sarà domani. Una fortuna. Un dono. Un’armatura.
E io sono gelosa.
Questi i miei pensieri, mentre camminiamo nei corridoi dell’aeroporto, loro due avanti di qualche passo, io dietro, curva di stanchezza, gli occhi al pavimento.
-Ma è lui?-
-Lui chi?-
-Lì, sulla panchina, guarda, sì è proprio lui, che faccio? Gli dico qualcosa?-
-Ma sei matta? È l’una e un quarto!-
-E allora? Dite che è una brutta figura?-
-Mamma per favore, andiamo.-
-E se ci fosse Fedez su quella panchina? Non ci andresti di corsa?-
-Ma ti sembra Fedez quello lì?-
-No. In effetti.-
Desisto, è tardi, mi stringo nelle spalle e li seguo mesta. Solo ogni tanto, giro la testa.
Loro si guardano, scuotono la testa. Si parlano con gli occhi,  credo dicano:
-Abbi pazienza è fatta così.-
-Però è simpatica.-
Torna la voce:
-Papà ma chi era quello?-
-Lo psichiatra, quello che piace alla mamma, quello che parla di famiglia, quello della trasmissione su Rai tre.
-Recalcati. Si chiama Recalcati!- urlo da dietro
-Chi?
-E me lo paragoni a Fedez?

#she'sback#padriefiglie#recalcati

C’e Una ragazza


-Ho preparato la bustina con i medicinali: moment, oki, cerotti, salviette disinfettanti e tachipirine, Mi raccomando, non darli a nessuno, è una regola. Mi ascolti? Giuli mi ascolti?
-Eh?
-I medicinali, Giuli, i medicinali! La tachipirina 500…-
-Se ne prendi due… diventan mille….
C’è una ragazza, assomiglia a mia figlia, che disintegra un momento di agitazione pre partenza cantando Calcutta.
-Hai preso gli asciugamani? Le mutande? Il libro da leggere? Un quaderno, che so? Prendere due appunti?
-Gli asciugamani? Ops.
-Scusa cosa hai fatto tutt’oggi?
-Sono andata a fare le ultime spese: il mascara, le salviette struccanti, più comode dell’acqua micellare, shampoo e balsamo.
C’è quest’altra ragazza, anche lei simile a mia figlia.
Comunque è partita. Ha chiuso una valigia le cui cerniere salteranno sicuramente durante il volo, controllato documenti, soldi, beni di prima necessità come carichino del telefono e presa inglese, separato liquidi oltre cento cc, e se ne è andata nel mezzo della notte, con i capelli ruffi e gli occhi assonnati.
Di nascosto ho preso il suo beauty e ho infilato un dentifricio, i benedetti medicinali da banco, un tronchesino per le unghie, un phon.
-Mamma hai messo tu il phon in valigia?-
-Sì-
-Vabbè. Puoi controllare se ho preso tutto?-
Poi ci siamo acquattate sul divano, a guadare Tutto può succedere, e niente, Marco sta per tradire Cristina, ma solo perchè è un momento difficile, non la vuole veramente tradire, ha solo bisogno di un po’ di evasione.
-Certo che è proprio un infame!- dice senza pietà
-Ma non ha fatto niente di male, non l’ha neanche baciata!
-Sì però ha detto una balla, è un infame. Punto.
Mi fa paura questa rigidità, ma ha quattordici anni, ci può stare, e poi è tardi per intavolare una discussione su tolleranza, comprensione, condivisione. Lascio stare. Cambio canale.
-Mi mancherai- le dico
-Anche tu- mi abbraccia.
Chissà. Magari è pure vero.
-Scusa ma stai guardando gli incidenti aerei? Cioè devo prendere un aereo tra sei ore!
-Hai ragione, scusa.
-Come sono andata oggi in inglese?
-Neanche male. Ti manca giusto la versione di ‘praticamente’ in inglese, però puoi usare : actually, by the way, anche gli inglesi usano gli intercalari, cosa credi?
-Vabbè, provo a dormire. Ma ti svegli alle due e mezza per salutarmi?
-Certo.
Mi sono alzata, alle due e mezza, l’ho abbracciata sulla porta, e per fortuna lo stordimento notturno ha evitato scene di emotività complessa e struggente.
Ora è là, non mi ha ancora mandato una foto, non ha postato nulla, nessuna storia, nessuna diretta. Oppure sono io che non sono becco mai il momento giusto.
Telefona e racconta poco e nulla: il college che assomiglia a una prigione, come se mai l’avesse vista, una prigione.  La cena servita alle diciassette pomeridiane, una pazzia, ha commentato.  Molti italiani, poi russi, e spagnoli.
Ah, non ci sono grucce,  pochissima carta igienica, e nessuna traccia di tenda doccia.
-Ma perché? Avete il bagno in comune?
Non ha risposto, ha cambiato discorso, qualcuno, un italiano, ha portato la macchietta del caffè, la vecchia intramontabile moka.
-Ma da quando bevi il caffè?
-Da stamattina.
C’è una ragazza, a millesettecento chilometri da me, si chiama Giulia, assomiglia a mia figlia, ha i suoi stessi capelli lunghi e biondi, e ha cominciato a bere caffè.

giovedì 24 maggio 2018

LESSICO FAMILIARE

La mia carriera in fatto di incidenti stradali non è un granché, ma merita comunque una riflessione, almeno oggi, dopo che ho firmato il terzo cid della mia vita.
UNO.
Regolarmente parcheggiata in via Bellacosta, apro delicatamente la portiera per scendere. Giulia è dietro, ha cinque anni, ed è legata nel seggiolino. Mi chiama:
‘Mamma voglio scendere anch’io. Slegami la cintura.’
Il tempo di girarmi a sganciare il pulsante, la portiera che si richiude, uno, due, tre BOOM! La portiera non c’è più, sradicata dal resto del telaio, tranne per un piccolo pezzo di cerniera.
Dalla macchina che si è fermata, più avanti,  scende un anziano. Gli sanguina una mano, mi chiede: ‘Tutto bene?’
‘Insomma.’
Giulia nel frattempo è scesa, non si è fatta nulla, solo un po’ di paura.
Il vecchietto è dispiaciuto, scuote la testa, dice: ‘Mi scusi, sto tutto a destra per evitare quelli che escono dai passi carrai. Deve essere il mio giorno sfortunato, anche l’altr’anno, stesso giorno, ho centrato un furgone di rumeni. Proprio il mio giorno sfortunato.’

DUE.
Ho fatto una semplicissima retromarcia in via Castiglione. Sempre con Giulia, sei o sette anni. Maledetto angolo cieco. Comunque sento un botto, forte, guardo dietro e non c’è nessuno. Tremo. Dio mio, penso, ho preso un bambino.
Scendo, non è un bambino, grazie al cielo, però è una signora, di una certa età, è vigile e cosciente. Mi avvicino subito:
‘Signora, signora?  Mi scusi, non l’ho vista, come sta? Mi scusi, aspetti che la aiuto.’
E’ sdraiata a terra, sembra molto dolorante,  vedo che fa fatica a parlare, indica la gamba: ‘Il piede- dice- Il piedeeeeee!
Niente,  il piede è rimasto sotto la ruota.
Oh Gesù. Risalgo in macchina, rimetto in moto, ingrano la prima. Giulia è sempre nel seggiolino. Impietrita.
Libero il piede della signora. Scendo. Intanto almeno venti passanti sono intorno a noi e mi guardano come fossi un’assassina. Tipo il film di Benigni. ‘Assassino… Assassino….’
La signora non vuole andare in ospedale, vuole andare a casa, vuole chiamare suo figlio. Le dò il mio numero di telefono, lei mi dà il suo. Me ne vado sentendomi un po’ meno di un'assassina, ma comunque male. La sera la chiamo. Così il giorno dopo. E quello dopo ancora. Non ha mai, mai risposto.

TRE.
Sono solo una passeggera di dieci anni. E’ mio padre alla guida, sulla strada per il Corno alle Scale. Ancora oggi credo che la mia reticenza a sciare sia dovuta a quell’incidente.
Intanto ha una catena sola. L’altra presumo l’abbia persa. Ha nevicato pesantemente, la strada è tutta bianca. Noi andiamo lo stesso, con una catena sola. Quando diventa chiaro che non riusciamo a proseguire lui dice: ‘Torniamo indietro, andiamo a comprare le catene.’
Magari.
Al terzo tornante in discesa, la macchina non risponde. Mio padre scuote la testa: ‘Ho fatto una cazzata, stringiti a me.’ Io eseguo, chiudo gli occhi mentre la macchina vola, o scivola, comunque finisce su un albero, ruotata sul fianco, dalla sua parte.
Ti sei fatta male? No. Bene, neanch’io. Scendi -dice-
Certo, come no! Aspetta che mi arrampico. Arriva qualcuno, mi aiuta.

Non ricordo di avere detto nulla, ricordo un carro attrezzi che tira su la macchina, il parabrezza disintegrato. E mio padre che dice: ‘Bene adesso andiamo a sciare. Ma mi raccomando, non dirlo alla mamma.’

QUATTRO. Torniamo ad oggi. Anche qui, una manovra stupida. Esco da un parcheggio che già non era stata una grande idea, in curva, davanti alle strisce pedonali. Comunque non la vedo arrivare, lei avanza piuttosto veloce e mi viene addosso. Si accartoccia la fiancata, la sua. Io non sono né soccmel Schumacher, né un esperto di codice della strada. Quindi alzo un po’ la voce, perché, tutto sommato, è lei che è venuta addosso a me.
‘Aspetta che chiamo il mio fidanzato.’-dice
Sono stanca e bellicosa.
‘Va bene-dico- aspettiamo il tuo fidanzato.’ E già un po’ mi incavolo con queste donne che hanno sempre bisogno di un uomo per risolvere un problema o per firmare un cid.
Appena arriva gliene dico quattro. Penso.
Macchè. Arriva un Genny Savastano di Vibo Valentia. Con i tatuaggi e gli orecchini. Magari è un pezzo di pane, però nel dubbio…
‘Hai torto marcio’ sentenzia
‘In effetti’ dico. Se mi chiede direttamente un assegno, quasi quasi glielo firmo…
Così rientro in macchina, e mi deprimo. E ripenso al viaggio di ritorno fatto con mio padre dal Corno alle Scale. Lui vestito da sci con la tanto di maschera. Io dietro, sdraiata sotto dei panni. In autostrada così. Senza parabrezza, mentre nevica. Senza neanche il conforto della mia mamma.
Lessico familiare. Domani chiamo Recalcati. O il telefono azzurro. O l’assicurazione. Che è meglio.

SCENA MUTA



Filosofia è la materia che ho portato come prima all’orale di maturità, Henri Bergson era la domanda a piacere che avevo preparato, perché avevano garantito di farla a tutti, così, per sciogliere la tensione. Bene.
Raffaele Ghidini fece l’orale prima di me e l’ultima domanda che dell’esaminatore fu su Henri Bergson. Fine della domanda a piacere. La mia tensione, quindi, l’unica, a essere alle stelle.
Il programma era lungo eterno, io credevo di avere più tempo e misi la croce sopra alcuni capitoli: L’io-non io di Fichte, Ludwig Feuerbach, e la critica della ragion pratica di Kant.
Uno due tre, le prime domande del mio orale di maturità, nella mia materia. Scena muta. Quattro. Non male.
Sono passati quasi trent’anni, ma lo sguardo della mia professoressa di filosofia lo ricordo ancora, il modo in cui arricciò le labbra e scosse la testa. Io abbassai le palpebre qualche secondo, per sentirmi, da sola,  un piccolo verme inutile.

Diventi adulta, impari tante cose, ti impegni, lavori, magari scrivi, e sogni. Che cosa? Quello che sognano tutti gli scrittori: di pubblicare un libro, un racconto, di vederlo andare in giro, di sapere che qualcuno lo ha letto, lo ha capito.
Il piccolo verme inutile dorme da tempo, non disturba. Solo ogni tanto si affaccia timido, mi ricorda che è sempre lì, in agguato, pronto a saltare fuori alla prima soddisfazione.
Eccolo qui, torna fuori alla libreria Ambasciatori, luogo dove ho assistito a presentazioni, cercato libri, idee, ascoltato scrittori, quelli bravi, raccontare di romanzi, quelli belli, fantasticando, un giorno, di essere là, dall’altra parte.
Oggi è così, merito di un ragazzo con tante idee, di un gruppo solido  e stimolante, di un’editrice coraggiosa e di una raccolta di racconti. Nostra. Piccolo sogno che si avvera.

Ma il piccolo vermetto è lì, di fianco a me, e chissà come, mentre un giornalista mi allunga il microfono, si insinua tra le mie corde vocali e dice: No, grazie. No grazie. Grazie, no. Neanche fosse Cyrano de Bergerac.
Non sono certa, ma credo di avere abbassato gli occhi come allora, davanti alla commissione di maturità. Di sicuro ho la lingua fuori, stretta tra le labbra, me lo dice, dopo, la foto che mi invia un’amica dal pubblico.
I casi sono due: o scrivo un libro all’altezza di Elena Ferrante, e scompaio mentre il mio fulminante successo viaggia per il mondo tradotto in trentasei lingue, o comincio a lavorare seriamente sulla mimica facciale e sull’elaborazione di semplici frasi dal senso compiuto, nel fortuito caso mi ricapitasse di essere davanti a un pubblico.
Intanto, magari, cercherò di terminare il romanzo, che sarebbe già un successo. Ma prima devo distruggere il piccolo verme malvagio, che sta lì, in agguato, pronto a boicottarmi. E mi sussurra piano, di notte, che non ce la farò. Fa sembrare semplice mollare tutto.
Niente. Devo proprio disintegrarlo.
Ah, dimenticavo: il ragazzo dalle mille idee si chiama Simone, l’editrice coraggiosa si chiama Katia, e il libro si chiama Misteri e manicaretti con Pellegrino Artusi, Edizioni del Loggione.

MOTORINI


-Voglio il motorino!-
-Capisco. Ti sei divertita?-
-E’ stupendo mamma.-
Passo indietro. La scuola si fa carico dell’educazione stradale dei nostri figli, fantastico. Alle elementari li portavano ai giardini, gli insegnavano ad attraversare la strada, a guardare con attenzione il semaforo, l’omino che lampeggia, l’arancione, le strisce pedonali. Poi è arrivato il turno della bicicletta, sempre ai giardini, i birilli per terra, il caschetto con cui si passavano i pidocchi, le buone regole della circolazione, tipo le mani sul manubrio.
Secondo me poteva bastare.
Invece no, la scuola si è modernizzata, è al passo coi tempi, i professori mandano i compiti via WhatsApp, per falsificare una giustificazione bisogna essere un hacker, tra un po’ il colloquio con i docenti si farà in facetime.
Perché stupirsi?
-Mercoledì c’è la prova in motorino-
-Ah si? E in cosa consiste?-
-Boh, un test in aula, ci spiegano alcune cose, poi ci fanno provare a guidare-
-Bello- aggiungo perplessa, ma in fondo la invidio.
Il messaggio ‘voglio il motorino’ è delle  9 59, poi alle 10 28 ‘sono caduta’ con faccina che ride. Cosa ci sarà poi da ridere non so.
-Ti sei fatta male? Chiedo
-No, no- Altra faccina che ride.
Ma che bisogno c’era, dico io, di questa simpatica gitarella in motorino? Non bastava, un giorno sì e uno no, l’elenco tutti quelli che hanno preso la patente, di quelli che hanno ereditato il motorino dal fratello, di quei genitori fantastici e meravigliosi che hanno promesso che forse, per la promozione…

-Dai, raccontami, sono curiosa.-
-Allora prima abbiamo fatto un po’ di teoria, poi abbiamo fatto delle prove al simulatore-
-Al simulatore?-
-Sì, tipo un manubrio collegato a un monitor che simula la strada, il traffico, etc, solo che sbucano pedoni all’improvviso, incredibile!-
-Beh può capitare in effetti.-
-Ah io ne ho investiti tre o quattro!-
-Davvero? Che simpatica.-
-Mamma ma è un simulatore, e pi non hai la visione laterale e neppure gli specchietti-
-Beh gli specchietti con i pedoni non è che aiutino un granché-
-E poi un camion ha frenato di colpo e ci sono finita dentro, pensa tu.
-Scusa e la prova pratica?-
-Niente, ho accelerato in curva, ho preso tutti i birilli e sono caduta-
-Ti sei fatta male?-
-No, niente, solo un graffio-

Bilancio della lezione di educazione stradale a bordo delle due ruote: quattro pedoni investiti, sei incidenti con altri mezzi, di cui due potenzialmente mortali, circa dieci incidenti da sola (non ricorda) nessuno mortale,  una sola scivolata reale con piccola escoriazione su interno caviglia.

-Credo che andrai in autobus ancora per un po’!-
………….
-Mamma? Mamma?-
-Cosa c’è?-
-Niente, sono dovuta scendere dall’autobus perché c’è stata una rissa-
-Una rissa?-
-Sì, un tizio ha tirato un pugno contro il vetro del conducente che si è frantumato.-
-e adesso?-
-Aspetto un altro autobus, certo, se avessi il motorino…