venerdì 13 ottobre 2017

DOMANI

-Come sta signora?-
-Di merda, grazie!-
Chissà perché in bocca a una persona di ottant’anni la parla merda mi sorprende sempre. Però con quella semplice parola sgretola la formalità o l’imbarazzo che altrimenti ci sarebbero stati, in questo piccolo supermercato, tra i carrelli, il banco macelleria, il guanto trasparente per prendere le verdure.
E’ una vecchia amica di famiglia, e ha seppellito un figlio neanche due mesi fa.
La fermo e mi faccio riconoscere perché suo figlio lo conoscevo, magari non bene, ma da una quantità di anni tale da volerle testimoniare anche il mio sgomento, e perché penso sempre che quando uno soffre in maniera atroce, nella solitudine nera, anche una conoscente che che ti saluta a fare la spesa è un modo per condividere un po’ di dolore.
Che  c’è, evidente e inevitabile. Però non lo ha buttato fuori come mi sarei aspettata, anzi, lo ha custodito gelosamente nel cuore di madre ormai forte, ormai vecchio.
Quello che ha lasciato uscire invece sono altre parole, parole che ora voglio scrivere qui solo per non dimenticarle, o per dare, se possibile, un minimo significato  a un uomo che se n’è andato molto presto.
-Non rinunciare- ha detto-Se hai un dubbio, se hai un pensiero che ti sfiora, anche se pensi sia una sciocchezza, vai avanti, non rimandare, dici ‘c’è tempo, lo farò domani’, domani? chissà…
il lutto è una cosa stupida, deleteria e troppo dolorosa, io non voglio vivere nel lutto, voglio onorare quello che non c’è più, vivendo ancora meglio-
Siamo sempre lì, le mani sul carrello, tra i succhi di frutta e i barattoli di marmellata, ma lei va avanti, non piange, non incrina neppure la voce, anche se qualcosa del suo corpo è materialmente morto. -se non sai cosa dire, devi dire di sì, DEVI DIRE DI SI - scandisce prima di girarsi e andare alla cassa
Io dovrei prendere una bottiglia d’olio, i crackers, lo yogurt, i mandarini, ma non riesco. La saluto con un calore di cui misuro la distanza, proseguo tra le corsie, e penso solo a quelle due frasi. Non rinunciare. Dì di sì
A cosa ho rinunciato? A cosa rinuncio tutti i giorni? A cosa rinunciate voi? A stupidaggini, penso. Una cena, un film, un week end, un viaggio, una dormita, un libro.
Rinuncio a del tempo, in effetti. Del tempo con i miei figli, con mio marito, con i miei genitori. Penso a tempo che ci sarà, alle vacanze che farò, ai progetti che realizzerò. Domani.
Invece ha ragione lei, i suoi capelli grigi, gli occhiali spessi sopra occhiaie profonde, le labbra sottili e consumate, il colore naturale di una pelle che di trucchi non ne vuole più sapere.
Io l’ammiro questa donna inconsolabile, eppure ottimista e forte e ferma e orgogliosa. E voglio ascoltarla, ma ascoltarla davvero e fare rimbalzare la sua saggezza o la sua energia o quel che è su una pagina volante sperando che la leggano anche solo due persone.
Io ci proverò: a lavorare ai progetti che amo, a guidare i miei figli, a godermi la mia famiglia, il tempo libero, fosse anche abbandonarmi un giorno alla stanchezza. Perché se non lo devo a lei, e non lo devo a suo figlio, che si chiama Mattia, lo devo a me stessa.
Questo, credo, volesse dirmi.

martedì 3 ottobre 2017

DIETRO LA PORTA

Qui dentro c'è tutta la mia vita.
E' un sacchetto di stoffa di Scout, la taglia più piccola. Dentro c'è un portafoglio rosa, la carta di identità, l'abbonamento al Bologna, la tessera dell'autobus, la prima paghetta settimanale, telefono e auricolari. Tutta la sua vita. In una bustina lunga venti centimetri e larga quindici.
Per me si sbaglia, le serve qualcosa di più grande, che so? La sua stanza almeno: i cassetti della nuova scrivania grigia, o quelli del comodino ancora da dipingere, le serve almeno una mensola, una libreria, di sicuro un armadio, probabilmente una nuova coperta rosa, magari un computer.
Lì dentro sì che potrebbe starci tutta la sua vita. Già c’è, in effetti.
La porta è quasi sempre chiusa, e la tentazione di aprirla ogni tanto di scatto, c’è, lo ammetto. Invece busso, perché è un microcosmo che devo rispettare, e  poi c’è la privacy, e la fiducia, e bla bla bla. Tanto basta perdere di vista un attimo Super-gattoboy-velocità, che sarebbe Giorgio immedesimato in un personaggio dei cartoni, aspettare che sfondi la porta con la bici, e pouf, via il rispetto, via la forma, via la privacy.
Di solido è sdraiata a letto a guardare il telefono, o immersa in una puntata di Teen Wolf,  un paio di volte era alla scrivania china su un quaderno, un’altra stava riordinando l’armadio, e un po’ mi sono commossa, per il resto è davanti allo specchio, a provare balletti, smorfie e ammiccamenti da postare sulla nuova frontiera social per adolescenti.
La porta della sua stanza è molto più spessa di quanto sembri, e io comincio a sentirmi lontana,  sarà la paura di perdere momenti importanti,  di non vedere le piccole crepe prima che diventino fratture, di confondere sbavature con macchie indelebili. Cosi cerco un’asola, non per spiare, ma per guardare il suo mondo, e scelgo Musical.ly  per entrarci dentro, per capirne il fascino.
Solo che tocca fare un account, registrarsi, basta anche il profilo fb. Mi dispiace, mi manca il coraggio, tanto i profili saranno privati, e l’umiliazione di chiedere amicizie varie a delle veline in erba, non la voglio subire.
Cercherò altre strade, altre fessure, oppure mi accontenterò di sbirciare qualche messaggio quando il telefono è incustodito sul tavolo, e di ascoltare brandelli di telefonate. Tanto loro, le giovani adolescenti multitasking, usano il viva voce, appoggiano il telefono sul letto e fanno delle specie di video conferenze di gruppo, intanto mettono lo smalto, riordinano la camera, studiano, pettinano i capelli, scelgono vestiti. Condividono. Magari riuscirò a beccare qualche diretta prima che sparisca nel web.
Ecco le armi nuove e tecnologiche che ho per sopravvivere a questa adolescenza. Poi, naturalmente, ci sono anche le vecchie. Quelle di sempre.
Venti minuti di macchina per andare a ginnastica, cucinare insieme un salame al cioccolato, guardare un film, andare per negozi. Infilare un racconto qua e là, buttare lì due domande, cercare qualcosa di più vero, qualcosa che stia dietro il sorriso di una foto, dietro le mosse di un video. Dimenticavo un ultimo magico momento, che non abbiamo mai avuto e che sicuramente sarà lo scrigno delle nostre confidenze. Il silenzio, il buio, l’intimità assoluta, un caffè, un latte, un altro caffè. E scherzo naturalmente. Le sei e trentacinque del mattino, appuntamento in cucina. Lei arriva un po’ gobba, una felpa grigia che ho comprato ad Amsterdam più di vent’anni fa. Mugugna qualcosa sulla temperatura di camera sua. A quest’ora prova solo odio: per me, per la scuola, per l’autobus,  il latte, un prof a caso, lo sgabello freddo, una briciola rimasta sul tavolo. Io non mi muovo, non parlo, non disturbo, non so neanche perché sono lì. Bevo il mio caffè in lucido silenzio.
Non è vero, lo so perché sono lì. Sono entrata nella sua camera, piano piano, ho guardato la sagoma raccolta sotto le coperte, mi è sembrata una donna, ma non lo è, è solo una ragazzina. E la mattina, quando è arrabbiata e stanca, e fuori piove, e vorrebbe solo covare sotto le coperte, io voglio che sappia che può anche trattarmi male. Tanto sono sempre qui. Forse è questa l’arma migliore.
E comunque si sbaglia, per racchiudere tutta una vita non si può fare a meno di una nuova, minuscola, graziosa, barocca  toletta da trucco.
n.b Il prossimo post si chiamerà Il momento dell’eroe, e naturalmente e dedicato lui. Super gattoboy velocità