venerdì 8 dicembre 2017

COME VORREI


Come vorrei avere quattordici anni, un’ora buca e un appuntamento al bar Venezia con le amiche.
Come vorrei, anche un giorno soltanto, prendere l’autobus, gli auricolari con l’ultima canzone di Coetz, scendere qualche fermata prima, bere un cappuccino, poi entrare a scuola, prima la gradinata, poi il corridoio, entrare nella mia aula e sedermi in fondo.
Nascondere il telefono sotto il banco, acceso e silenzioso.
Come vorrei invitare due amiche a casa il martedì pomeriggio, fare con loro un lavoro di arte, un po’ di merenda, e poi buttarci sul letto a chiacchierare.
Come vorrei dare una festa sabato sera. Io e la mia migliore amica, una piccola sala, un deejay, una trentina di amici, forse qualcuno in più, mia mamma al bar di fronte a buttare un occhio. Qualcuno arriva con i tacchi, ignorando come  ci si cammini, e quanto male possano fare, qualcuno più furbo, nello zaino ha messo ha un paio di all-star che non si sa mai.
Come vorrei andare a letto felice verso l’una, e dormire di un sonno così profondo da non sentire il furgone dell’Hera che passa alle sei di mattina, svegliarmi verso le undici e mettere orgogliosa la maglietta di Stranger things, provare tutti i miei nuovi trucchi, pranzare con i miei genitori e correre alla partita.
Come vorrei avere una versione di latino domani, o una verifica di geo-storia, anche un esercizio sugli insiemi mi piacerebbe.
Come vorrei essere una ragazzina e non avere freddo mai, magari solo un po’ allo stadio il 3 dicembre. Come vorrei non mettere la canottiera, non avere mal di schiena, e non vedere nello specchio il pallore della stanchezza.
Come vorrei tornare nel vicolo Broglio di trent’anni fa, con la minigonna di jeans, le toppe di naj-oleari, le calze col pizzo e i camperos, entrare timida timida all’Art, e ballare.
Ma basterebbe anche essere su una vespa cinquanta special, truccata con un motore settantacinque, caricata, senza casco perché ancora non è obbligatorio, su per via di Casaglia, magari una sera di giugno, la scuola appena finita, in direzione Fri-go.
Come vorrei.
Ma è una malinconia che dura solo il tempo di questa giornata, perché compio quarantaquattro anni, e avrei anche fatto finta di niente, me ne stavo zitta zitta, neanche una candelina, ma non è possibile in questo mondo social. Un algoritmo bizzarro di FB mi invia una notifica, per ricordarmi, a me, proprio a me, che oggi è il mio compleanno. Così, nel caso me lo fossi dimenticato. Che devo fare? Andare sul mio diario e scrivermi un messaggio di auguri? Va bene, Auguri. scrivo un post. Amen

NO,NIENTE


Comunque ventura si deve dimettere-
-Beh anche Tavecchio…-
-Poi non ha convocato Verdi, uno scandalo-
-E non hanno neanche avuto il coraggio di presentarsi alle telecamere, vigliacchi-
-E Darmian? Lo ha fatto giocare da ala invece che a centrocampo, proprio un incompetente-
Io mia figlia la amo così tanto che mi tocca parlarci anche di calcio, di modulo, schema tattico, 4-4-3 , 4-3-2-1, più altre cose che francamente non capisco, ma si sa, quando perde l’Italia siamo tutti un po’ allenatori. 
Ora che è più grande, più impegnata, mi accorgo che mi manca. Anche dieci minuti in macchina, io e lei, hanno il gusto dell’intimità. 
E’ poco, lo so anch’io, mi devo inventare qualcosa.
La vado a prendere alle quattro e mezza, le faccio fretta come al solito, gli zainetti sono già pronti. Guanti, torcia elettrica, bandana, berretto. 
-Quanto dura?-chiede
-Un’ora e mezza, più o meno-
-Ah, quindi arriviamo a casa alle otto- 
-Magari un po’ prima, perche?-
-No niente-
No, niente: è la sua risposta preferita. La usa come intercalare.
-Non ho sentito, puoi ripetere?- No niente
-C’è qualcosa che non va?- No niente
-A che ora torni?- No niente - A che ora torni, ho chiesto? - Ah, alle sette, scusa.
Il No niente di oggi vuol dire che domani ha una verifica di scienze, che deve ancora ripassare, dopo qualche esercizio di grammatica e prima di X-Factor.
-Se vuoi vado da sola-
-No, ripasso dopo. Le calosce le hai trovate?-
-Sì, le ha comprate la nonna, sono in macchina-
Calosce nere, normalissime, assomigliano a quegli stivali in gomma che vanno pure di moda, non capisco perché le guardi con quell’aria disgustata.
-Ma dobbiamo anche camminare per strada?-
-Non lo so. Cosa c’è? hai paura di incontrare qualcuno?-
In effetti forse ha ragione, calosce nere, caschetto giallo, torcia, la mamma di fianco, una manciata di persone uguali a noi, tra ragazzini, signore attempate, qualche padre, qualche figlio, la guida davanti a tutti con il casco e il microfono ad archetto.
Sembriamo i giapponesi in gita. 
Invece siamo un gruppetto di bolognesi in visita ai sotterranei della città, si parte da via Marconi, sotto via Riva Reno, piazzetta della Pioggia, poi via Falegnami, via Augusto Righi, tutto sotto terra, dove scorrono i canali, tranne oggi perché ci sono i lavori di manutenzione.
Tutto molto bello, non fosse per i quaranta minuti di lezione sull’ingegneria idraulica, la grande turbina, la vasca di sfioro, il generatore di emergenza, il fenomeno della cavitazione, e lei che mi guarda, in una mano la torcia, nell’altra il casco, e due occhi sconsolati che mi dicono: cosa ci facciamo qui? 
La incenerisco con lo sguardo, ma in cuor mio spero anche io che questa lezione finisca tra un minuto, o mi odierà per sempre.
Poi la guida richiama la nostra attenzione:
-Mi raccomando-dice- il salto tra il Cavaticcio alto e quello basso è di quattordici metri, e c’è un affaccio senza parapetto, quindi non avvicinatevi-
Ecco, pure pericolosa sta stupida gitarella. 
-Mamma, ma se inciampo e casco giù?-
-Tranquilla, mi butto dietro di te-
-E Giorgio? Vabbè, cerchiamo di stare attente. 
In realtà ci divertiamo, in questi tunnel bui, illuminati dalle nostre torce, camminando a testa bassa per non sbattere la testa, a fotografare i gamberi di fiume intrappolati nelle pozze. Guardiamo la strada dal di sotto, dalle griglie su cui saremo passate centinaia di volte in macchina. 
Per una volta siamo dentro il canale che abbiamo visto dalla benedetta finestra di via Piella, dove ho scoperto che un tempo lavavano le vacche prima di venderle in piazzola, incuranti che pochi metri più in là, lavassero anche i morti. 
Quest’ultimo pezzo, per fortuna salva tutta la giornata, usciamo da un cancello e finalmente siamo di nuovo all’aperto. 
Possiamo toglierci il casco, le calosce infangate, e quasi corriamo al parcheggio dove abbiamo lasciato la macchina. Non lo ammetterà mai, ma si è divertita.
Purtroppo la quotidianità è quel che è, siamo sempre in macchina, un giorno di pioggia incessante. 
-Perchè quella faccia?-
-No niente-
-Dai, cosa è successo?-
-Niente, ti ricordi la verifica di scienze? Avrei preso cinque
-Ah, mi spiace, recupererai…colpa mia, sei arrabbiata? Ohi sei arrabbiata? 
-No, niente.

venerdì 13 ottobre 2017

DOMANI

-Come sta signora?-
-Di merda, grazie!-
Chissà perché in bocca a una persona di ottant’anni la parla merda mi sorprende sempre. Però con quella semplice parola sgretola la formalità o l’imbarazzo che altrimenti ci sarebbero stati, in questo piccolo supermercato, tra i carrelli, il banco macelleria, il guanto trasparente per prendere le verdure.
E’ una vecchia amica di famiglia, e ha seppellito un figlio neanche due mesi fa.
La fermo e mi faccio riconoscere perché suo figlio lo conoscevo, magari non bene, ma da una quantità di anni tale da volerle testimoniare anche il mio sgomento, e perché penso sempre che quando uno soffre in maniera atroce, nella solitudine nera, anche una conoscente che che ti saluta a fare la spesa è un modo per condividere un po’ di dolore.
Che  c’è, evidente e inevitabile. Però non lo ha buttato fuori come mi sarei aspettata, anzi, lo ha custodito gelosamente nel cuore di madre ormai forte, ormai vecchio.
Quello che ha lasciato uscire invece sono altre parole, parole che ora voglio scrivere qui solo per non dimenticarle, o per dare, se possibile, un minimo significato  a un uomo che se n’è andato molto presto.
-Non rinunciare- ha detto-Se hai un dubbio, se hai un pensiero che ti sfiora, anche se pensi sia una sciocchezza, vai avanti, non rimandare, dici ‘c’è tempo, lo farò domani’, domani? chissà…
il lutto è una cosa stupida, deleteria e troppo dolorosa, io non voglio vivere nel lutto, voglio onorare quello che non c’è più, vivendo ancora meglio-
Siamo sempre lì, le mani sul carrello, tra i succhi di frutta e i barattoli di marmellata, ma lei va avanti, non piange, non incrina neppure la voce, anche se qualcosa del suo corpo è materialmente morto. -se non sai cosa dire, devi dire di sì, DEVI DIRE DI SI - scandisce prima di girarsi e andare alla cassa
Io dovrei prendere una bottiglia d’olio, i crackers, lo yogurt, i mandarini, ma non riesco. La saluto con un calore di cui misuro la distanza, proseguo tra le corsie, e penso solo a quelle due frasi. Non rinunciare. Dì di sì
A cosa ho rinunciato? A cosa rinuncio tutti i giorni? A cosa rinunciate voi? A stupidaggini, penso. Una cena, un film, un week end, un viaggio, una dormita, un libro.
Rinuncio a del tempo, in effetti. Del tempo con i miei figli, con mio marito, con i miei genitori. Penso a tempo che ci sarà, alle vacanze che farò, ai progetti che realizzerò. Domani.
Invece ha ragione lei, i suoi capelli grigi, gli occhiali spessi sopra occhiaie profonde, le labbra sottili e consumate, il colore naturale di una pelle che di trucchi non ne vuole più sapere.
Io l’ammiro questa donna inconsolabile, eppure ottimista e forte e ferma e orgogliosa. E voglio ascoltarla, ma ascoltarla davvero e fare rimbalzare la sua saggezza o la sua energia o quel che è su una pagina volante sperando che la leggano anche solo due persone.
Io ci proverò: a lavorare ai progetti che amo, a guidare i miei figli, a godermi la mia famiglia, il tempo libero, fosse anche abbandonarmi un giorno alla stanchezza. Perché se non lo devo a lei, e non lo devo a suo figlio, che si chiama Mattia, lo devo a me stessa.
Questo, credo, volesse dirmi.

martedì 3 ottobre 2017

DIETRO LA PORTA

Qui dentro c'è tutta la mia vita.
E' un sacchetto di stoffa di Scout, la taglia più piccola. Dentro c'è un portafoglio rosa, la carta di identità, l'abbonamento al Bologna, la tessera dell'autobus, la prima paghetta settimanale, telefono e auricolari. Tutta la sua vita. In una bustina lunga venti centimetri e larga quindici.
Per me si sbaglia, le serve qualcosa di più grande, che so? La sua stanza almeno: i cassetti della nuova scrivania grigia, o quelli del comodino ancora da dipingere, le serve almeno una mensola, una libreria, di sicuro un armadio, probabilmente una nuova coperta rosa, magari un computer.
Lì dentro sì che potrebbe starci tutta la sua vita. Già c’è, in effetti.
La porta è quasi sempre chiusa, e la tentazione di aprirla ogni tanto di scatto, c’è, lo ammetto. Invece busso, perché è un microcosmo che devo rispettare, e  poi c’è la privacy, e la fiducia, e bla bla bla. Tanto basta perdere di vista un attimo Super-gattoboy-velocità, che sarebbe Giorgio immedesimato in un personaggio dei cartoni, aspettare che sfondi la porta con la bici, e pouf, via il rispetto, via la forma, via la privacy.
Di solido è sdraiata a letto a guardare il telefono, o immersa in una puntata di Teen Wolf,  un paio di volte era alla scrivania china su un quaderno, un’altra stava riordinando l’armadio, e un po’ mi sono commossa, per il resto è davanti allo specchio, a provare balletti, smorfie e ammiccamenti da postare sulla nuova frontiera social per adolescenti.
La porta della sua stanza è molto più spessa di quanto sembri, e io comincio a sentirmi lontana,  sarà la paura di perdere momenti importanti,  di non vedere le piccole crepe prima che diventino fratture, di confondere sbavature con macchie indelebili. Cosi cerco un’asola, non per spiare, ma per guardare il suo mondo, e scelgo Musical.ly  per entrarci dentro, per capirne il fascino.
Solo che tocca fare un account, registrarsi, basta anche il profilo fb. Mi dispiace, mi manca il coraggio, tanto i profili saranno privati, e l’umiliazione di chiedere amicizie varie a delle veline in erba, non la voglio subire.
Cercherò altre strade, altre fessure, oppure mi accontenterò di sbirciare qualche messaggio quando il telefono è incustodito sul tavolo, e di ascoltare brandelli di telefonate. Tanto loro, le giovani adolescenti multitasking, usano il viva voce, appoggiano il telefono sul letto e fanno delle specie di video conferenze di gruppo, intanto mettono lo smalto, riordinano la camera, studiano, pettinano i capelli, scelgono vestiti. Condividono. Magari riuscirò a beccare qualche diretta prima che sparisca nel web.
Ecco le armi nuove e tecnologiche che ho per sopravvivere a questa adolescenza. Poi, naturalmente, ci sono anche le vecchie. Quelle di sempre.
Venti minuti di macchina per andare a ginnastica, cucinare insieme un salame al cioccolato, guardare un film, andare per negozi. Infilare un racconto qua e là, buttare lì due domande, cercare qualcosa di più vero, qualcosa che stia dietro il sorriso di una foto, dietro le mosse di un video. Dimenticavo un ultimo magico momento, che non abbiamo mai avuto e che sicuramente sarà lo scrigno delle nostre confidenze. Il silenzio, il buio, l’intimità assoluta, un caffè, un latte, un altro caffè. E scherzo naturalmente. Le sei e trentacinque del mattino, appuntamento in cucina. Lei arriva un po’ gobba, una felpa grigia che ho comprato ad Amsterdam più di vent’anni fa. Mugugna qualcosa sulla temperatura di camera sua. A quest’ora prova solo odio: per me, per la scuola, per l’autobus,  il latte, un prof a caso, lo sgabello freddo, una briciola rimasta sul tavolo. Io non mi muovo, non parlo, non disturbo, non so neanche perché sono lì. Bevo il mio caffè in lucido silenzio.
Non è vero, lo so perché sono lì. Sono entrata nella sua camera, piano piano, ho guardato la sagoma raccolta sotto le coperte, mi è sembrata una donna, ma non lo è, è solo una ragazzina. E la mattina, quando è arrabbiata e stanca, e fuori piove, e vorrebbe solo covare sotto le coperte, io voglio che sappia che può anche trattarmi male. Tanto sono sempre qui. Forse è questa l’arma migliore.
E comunque si sbaglia, per racchiudere tutta una vita non si può fare a meno di una nuova, minuscola, graziosa, barocca  toletta da trucco.
n.b Il prossimo post si chiamerà Il momento dell’eroe, e naturalmente e dedicato lui. Super gattoboy velocità

martedì 8 agosto 2017

BYE BYE

Luglio è un mese pericoloso che nasconde insidie. É il caldo di sicuro. O lo stress, o tutti e due, uniti a questa sindrome da fine del mondo che attacca come un virus influenzale più o meno tutti.
In questo clima torrido anche la più stupida telefonata del termotecnico che ti chiede lo spessore di una parete può scatenare l’ira più funesta.
La sensazione è quella: non averne più, di pazienza, tempo, diplomazia, forse anche educazione.
Ed esplodere. Che ogni tanto ci vuole perché esiste un limite sacrosanto al numero di cose che bisogna assolutamente fare prima della ‘pausa estiva’.
Comunque non sono un medico, non salvo vite, tre settimane di assenza non produrranno nell’universo mondo nessuna significativa alterazione.
E dire che qualcosa di buono questo luglio ha lasciato: intanto Giorgio è ingrassato un chilo, merito di mia madre e del suo magico frullino, o non di che altra combinazione magnetica. Quello che sia, io non ce l’ho, perché è da due giorni a casa e non riesco ad avvicinarmi con il piatto che dice ‘bleah che puzza’.
Di bello ci sono anche le mie ragazze, quattro piccoli animaletti che mangiano a letto tra briciole, sabbia, vestiti, caricabatterie, dischetti struccanti, kinder, cartacce, ancora sabbia, ancora briciole.
In bagno ho contato otto spazzolini, ho tentato in maniera blanda di ristabilire un minimo di decoro, non ci sono riuscita. Però ho stemperato una lite tra sorelle, ho dato consigli sull’outfit serale, ho generato l’acquisto di sandali tacco dieci da parte di una diciassettenne (poi abbandonati), ho studiato la personalità di queste quattordicenni, quindicenni, diciassettenni, ho fotografato una ragazza seduta sul davanzale, con un bambino che la copiava sul davanzale a fianco, ho indagato su fantomatici fidanzati, ho fatto finta di non capire, di non sapere quale sia l’unico motivo al mondo che ti fa uscire di casa alle otto del mattino.
Perché a loro piace pensare che noi adulti siamo vecchi, rincoglioniti, e bacchettoni. Anche se non lo siamo, anche se i nostri diciassette anni erano ieri l’altro, anche se alla Villa delle Rose ci siamo stati prima di loro, e ne conserviamo una foto che immortala quello che sarebbe diventato un matrimonio, due figli e un cane. Quindi neppure troppo tempo fa.
Io penso a un film di Monicelli, di almeno trent’anni fa: Speriamo che sia femmina. E rivedo questa tavola di donne: sorelle, cugine, amiche. E se lì qualcuno scappava per andare al concerto di Ron, noi qui siamo in batteria su Ticketone per comprare Ed Sheeran, però la differenza in fondo è poca. C'è giusto un bambino molesto che cerca di farsi notare, e onestamente, dato che si parla di mio figlio, non mi va di paragonarlo allo zio Bugo, anche se, in effetti, una qualche parentela ci potrebbe pure stare.
Ma è lo stesso, il cemento che sento saldo sotto il tavolo legare i piedi di queste ragazze, mi dà sempre una grande gioia, mi fa dimenticare la fatica di questo fine luglio imbarazzante, mi fa guardare avanti nel loro futuro che spero luminoso ed elettrizzante. Chi sta per partire per i Canada nella più beata incoscienza, chi deve cominciare il liceo e questa estate non apre un libro, chi sta diventando una ragazza solida e più sorridente di come la ricordavo, chi ha gli occhi limpidi e diretti.
Comunque luglio è finito, noi siamo in transito per le Marche direzione Puglia, una puntata a Loreto a prendere la benedizione della Madonna non me la leva nessuno, perché l’ultima cosa che ho chiesto mi dorme qui di fianco.
Questa volta non chiederò niente, solo un po’ di riposo ed energia. In macchina c’è un fenicottero rosa da gonfiare, un canotto dei Pjmask, braccioli, salvagente, secchielli, palette, una bici pieghevole, un cane, e noi. Secondo me c’è tutto.

sabato 1 luglio 2017

GIORGIO, IL GIAPPONESE

Trascorrere una decina di giorni con la mia ragazza mi ha fatto bene, mi ha fatto ricordare quanto sia bello passare del tempo con i propri figli, soprattutto quando parlano, ascoltano, ridono, consolano come un adulto, ma un adulto speciale, senza pensieri  e preoccupazioni. 
Il ragazzino però mi è mancato, perché a suo modo anche lui parla ascolta ride e consola. 
Poi scappa, e ancora devo capire come faccia con due gambe che non superano i quaranta centimetri a correre così veloce, dieci secondi e non c’è più, eppure era lì un secondo fa. Ecco, finiremo al publifono, e si cercherà per il lungomare di Riccione un bambino italiano di circa quattro anni, indossa un costumino…Un costumino? Oddio com’era il costumino? quello a righe? Sì, quello a righe blu, sperando che non se lo sia levato, il selvaggio.
Niente publifono, per fortuna è alle docce, aveva sete oppure seguiva una farfalla, chissà. 
-Mamma che succede? Non mi sembri felice!-
No, infatti non sono felice se scappi, se ti allontani correndo alla velocità della luce, e per inciso non sono felice quando mi pesti i piedi, quando rovesci l’acqua per gioco, quando rubi tutti i trattori della spiaggia, quando fai la pipì negli ombrelloni altrui, e poi non continuo per non ferirti. 
Però ti amo lo stesso, e non è vero che non sono felice, lo sono, e penso tu sia il bambino più simpatico che abbia mai conosciuto.
Sarà per gli spruzzi di un irrigatore che ci fanno la doccia e ti fanno alzare le braccia e dire: ‘oh no, adesso ricomincia a piovere!’ , o per un bagno lungo eterno, dal quale ti devo trascinare via di peso, che ti fa appoggiare la guancia fredda sulla mia spalla e dire: -Mamma io adoro l’acqua-
Nessuno come un bambino, sa far ridere fino alle lacrime e commuovere un minuto dopo, strappare il cuore a tradimento o sollevarti il morale.
Come quando cadi, e, ti giuro, non conosco nessun altro con la tua soglia del dolore, perché, sempre, ti rialzi e dici: -Sto benissimo, è solo una bubbina-
Lo so, è un’overdose di melassa, uno sdolcinato sproloquio da madre emotiva dal cuore più molle di un budino. Perdonatemi, o abbattetemi, oggi va così.
Ho due figli, sono un po’ dei figli unici, per quanto si possano amare, saranno sempre poche le cose che potranno condividere dello loro quotidianità, e se pare un pensiero triste o malinconico, non lo è, perché questa distanza consegna a me, madre, e a loro, figli, del tempo meraviglioso da passare solo in due.
Fantastico sui viaggi che farò con lei, in lotta tra musei e shopping compulsivo, e quelli che farò con lui, alla scoperta di tutto. 
Quindi caro il mio ragazzino pestifero, ti sbagli, sono felice, e benché abbia riconosciuto nella tua affermazione dolce e preoccupata la stessa che Masha rivolge ad Orso quando finiscono i lecca lecca, dovrai perdonarmi una volta in più, perché io prendo maledettamente tutto sul serio, ma ci sto provando, giuro, ci sto provando. 
E, di citazione in citazione, concludo ringraziando della pazienza che hai avuto, accompagnandomi a sentire uno scrittore che mi piace. L’ho fatto anche per te. Perché un giorno ti regalerò un paio di libri, di cui rileggo piccoli pezzi ogni tanto come scacciapensieri. Uno ti riguarda, e lo amo particolarmente. 

Sono i Momenti di trascurabile felicità, Francesco Piccolo. Nella prima di copertina c’è una dedica dell’autore : ‘a Giorgio, il giapponese’

DUE COSE


È possibile che l’esame di terza media sia uno scoglio che ho sottovalutato, forse perché dal mio sono passati trent’anni e ricordo solo due cose: qualcuno che mi sottrae la bella copia del compito di matematica a una decina di minuti dalla consegna e una gonna di cotone blu con le balze che avevo all’orale.
Non saprei neppure il voto che ho preso se non me lo avesse ricordato pochi giorni fa la stessa persona che mi sfilò il compito.
Voglio dire: ci sarà il liceo, magari l’università, e nessuno mai ricorderà questo preciso esame, il cui peso specifico nella vita e nella carriera lavorativa di chiunque è pari al foglio su cui ne sarà stampato il voto.
Eppure oggi, mentre aspettiamo in sequenza:  il caldo torrido di caronte, il concerto di Tiziano, e, per concludere, il giorno dell’orale, in casa l’aria si è fatta pesante. Di solito ho una soluzione per tutto: per caronte ho una nuovissima ed efficace aria condizionata, per Tiziano ho promesso di comprare una bandana, ho  guardato la scaletta e ascolto la playlist malinconica senza battere ciglio,  per l’orale invece non so che fare oltre a guardare per la terza volta Pearl Harbour ed il ciuffo biondo tinto di Ben Affleck. 
In realtà una strategia l’avevo: ho mandato via il piccolo disturbatore, ho ricavato un po’ di tempo dal lavoro, e soprattutto ho incamerato buonumore, energia e ottimismo a prova di adolescente nervosa e scostante.
Ma non basta. Se oso dare qualche consiglio  a bassa voce, come al solito non ho capito niente,  se faccio una domanda di storia è quella sbagliata. Se minimizzo l’importanza di questo esame rischio di essere incenerita, se  provo con la distrazione, di nuovo non ho capito.  Non è tempo di frivolezze, lei DEVE studiare. 
Mentre capisco e riconosco questa agitazione pre esame, soprattutto di chi porta la lettera A ed è il primo del registro, cerco di insistere sul fatto che essere i primi è un vantaggio, ma di me non si fida, non so perché. Forse mi odia.
Io credo che anche lei, come me, dimenticherà parte di queste giornate, tutto di questa ansia, e forse anche l’esame intero.
Quindi oggi scrivo due cose, perché voglio, un giorno tirarle fuori dal cappello e farla ridere.
La prima è lei nella nostra piccola cucina, i pantaloncini di jeans, una maglietta a righe e i capelli raccolti sulla testa. Balla una canzone di Tiziano, la canta dall’inizio alla fine, con le sue mosse da musically, quelle che di solito detesto. Ma non stasera. 
La seconda è questo brandello di interrogazione, in cui mi calo perfettamente nella professoressa che avrei anche potuto essere, e simulo l’orale di italiano:
-Dunque Ancarani, tra i personaggi dei Promessi Sposi quale ti sembra il più complesso, o quale è la figura che ti ha colpito maggiormente?-
-Direi l’Innominato-
-Bene Ancarani, e dimmi, ti è piaciuto il romanzo?-
-Si, mi è piaciuta la storia, i personaggi, il fatto che passano in mezzo a molte difficoltà. Solo una cosa mi ha deluso-
-Davvero? Che cosa ti ha deluso? -
-Il finale.  Francamente, dopo tutte quelle pagine, neanche un minuto per il matrimonio. Insomma da Manzoni mi aspettavo un po’ di più. Non sei d’accordo?-




venerdì 2 giugno 2017

POLVERE DI STELLE

La settimana corta dovrebbe entrare in una specie di carta dei diritti dei lavoratori, o delle madri, che forse è meglio. Perchè lavorare quattro giorni su sette è più giusto, più equilibrato, più bello, semplicemente.
Come lo passerò io questo venerdì di festa? Non so. Forse una giornata al mare, solo una, andata e ritorno perchè sabato c'è scuola, le ultime tre ore di italiano prima dell'esame. Fondamentali.
Oscilllo tra questo desiderio di amiche, sole e mare, e la pigrizia, acerrima nemica delle settimane corte.
L'alternativa è rimanere a casa, schivare il bollino nero del traffico, le creme solari, la sabbia, la fila per la piadina, e poltrire. Un sogno, praticamente. Peccato che abbiamo preso la decisione solenne di installare l'aria condizionata, ma non due pinguini semplici semplici, proprio l'impianto tradizionale, macchine esterne, split, tutto incassato e sotto traccia, perchè sono pur sempre un architetto, che ci vuoi fare?
Risultato? Polvere. Fine, invisibile, inafferrabie, detestabile polvere.
Giorgio sembra il figlio piccolo di Mr Banks in Mary Poppins, quello sui tetti di Londra con il faccino nero. Però io non ho i poteri di Mary Poppins, e nemmeno di Bert lo spazzacamino, quindi soffro, mi arrendo al potere invisibile della polvere, e probabilmente, domani me ne andrò al mare per ignorarla un giorno in più. Tanto sarà sempre lì al mio ritorno.
Eh, la settimana corta, che benedizione! Poi te la godi di più se alle due e mezza di giovedì pomeriggio sotto un sole che ti scioglie sei in un cantiere in collina, e c'è Maurizio, il contadino novantenne che vorrebbe fare il direttore lavori, che proprio non la manda giù una donna, architetto, che si occupa di scavi e fognature.
-Ci sono molte bisce- dice.
Vuole spaventarmi, e ci riesce, perchè io in mezzo alle bisce proprio non ci vado,  poi quando gli chiedo due carciofi dell'orto e due fiori di zucca finalmente  mi riconosce. La donna che è in me, la madre, la moglie, la cuoca. Facciamo amicizia, io e Maurizio. Ho anche il suo numero di telefono.
-La chiamo- dico.- per l'inizio dei lavori, così ci dà una mano- Mi guarda di nuovo in modo torvo, ma un po' meno.
-Le preparo i carciofi-sorride-
 E' più forte di lui.
va bene, vado al mare, una giornata, ma alle cinque sono a casa, combatto con la polvere, e aspetto che arrivi il sabato, una ragazza che va scuola per ripassare italiano e spagnolo, un bambino che si sdraia per terra, perchè lui nella polvere ci nuota serenamente, una finale di champions che non me ne può fregare di meno, magari riesco pure a scrivere due righe o a leggerne quattro, che è anche meglio.
Adesso dormo, se riesco, che il bambino impolverato qui di fianco a me russa, ru come un... come un.... non mi viene, però russa. Come la Nina. Gesù ci mancava solo il cane.

domenica 21 maggio 2017

COSE DI FAMIGLIA

Metti un sabato mattina di metà maggio, metti una settimana faticosa come oramai lo sono quasi tutte, le mie, ma anche quelle della maggiorparte della gente con cui parlo. settimane fatte di corse, di lavoro, di accompagnamenti vari, di febbri, di compiti, di cene arrangiate, di frigo vuoti, di umori variabili, che a volte viene da chiedersi che senso abbia correre così.
Metti un sabato mattina diverso dagli altri, una doccia veloce per cominciare la giornata, la solita coppia di caffè, una fiesta al curacao, aiuto inestimabile di giornate convulse, poi si parte.
Vai a ritirare un pranzo completo per dodici persone, di cui uno a dieta e una vegeriana, però sembra poco, allora corri a casa, metti in forno un po' di belga, butta nell'acqua due asparagi, prepara un po'    di pinzimonio.
Corri come una pazza in una due giorni che meriterebbe invece un po' di riflessione e un po' di silenzio, corri a cercare un vestito, uno per te e uno per la principessa, corri a ordinare un mazzo di rose bianche, corri a ritirare una cassa di champagne.
Accompagna la principessa a una festa, perchè non ci facciamo mancare nulla, tuo marito all'aeroporto, e un bambino di tre anni a vedere gli aerei che decollano. 
E siamo solo a sabato.
Otto ore di sonno poi di nuovo in pista, si parte con la prova abiti, la messa in piega casalinga, perchè il parrucchiere proprio non ci stava, Tacco,  trucco parrucco e via.
La quarantottore è finita, ora il silenzio c'è, nella mia casa semibuia, allora permetto alla stanchezza felice di farsi avanti e di scivolare su una pagina che voglio ricordare. 
Io oggi sono felice, ieri ho festeggiato i miei genitori con le mie sorelle e tutti i nipoti,  i loro cinquanta anni insieme, le loro giornate lucide, quelle  più opache, tutto quello che  sta dentro una vita intera.  E ho goduto della fiducia che loro hanno avuto sempre.
Oggi ho festeggiato un'altra coppia, ho provato a mettermi un vestito rosa come quello della principessa Kate, ma ho desistito, ho portato il mio meraviglioso piccolo George, che non ha la statura reale per fare da paggetto, anche perchè dopo quaranta secondi di cerimonia, aveva già rubato un monopattino, si era tolto entrambe le scarpe e si rotolava sul pavimento della sala rossa, senza che nei paraggi ci fosse nessuna reale tata con scamiciato verde militare e occhiali da signorina Rottermeier.
E' stato un fine settimana pieno di passato e di futuro, di quelli che piacciono a me, dove posso guardare indietro ai successi e ai traguardi raggiunti e posso guardare avanti alla felicità sognata, conquistata e ancora tutta da scrivere.
Se le emozioni non stanno nei brindisi e nelle fotografie, stanno però indelebili nei ricordi, perchè le lacrime di gioia sono rare e inafferrabili, e forse in qualche foto ci staranno pure, ma la voce rotta di una ragazza, che è una donna tutta di un pezzo, quella può stare solo nella memoria o in questa pagina.
Metti una tavolata, la famiglia, i bambini che si annoiano, le ragazze che si mettono i tacchi per la prima volta, i cugini che non vedi mai, ma che ti sembra avere visto solo ieri, metti fiumi di vino, una cheescake che non avevo capito, un terrazzo pieno i fiori, le voci che si mescolano, le risate che scoppiano, un benessere diffuso e dilagante.  metti una scarpina che sparisce, i tacchi pure, per fare posto ai calzettoni, metti le foto in posa, una cornice di argento con due fedi intrecciate, un paio di orecchini antichi, e un vestito, il mio, più antico di loro, ma non sembra. Metti tra le altre la solita foto di noi tre. Metti la mia famiglia. un giorno di maggio.

lunedì 17 aprile 2017

UN GIOCO DA RAGAZZI



Lo dice un bambino di tre anni, che poi è mio figlio, e mi si apre un mondo. Perchè io faccio fatica per ogni cosa, tutti i giorni, tutto il giorno.
Sarò in un periodo lamentoso, perché fatico a spegnere la sveglia e scendere dal letto, svegliare gli altri non ne parliamo.  Lavare  e vestire il piccolo mi sembra l'Everest, portare giù il cane?  Il K2. Anche mettergli le scarpe mi sembra una scalata dura e inaccessibile. Sono io? E' lui? che importanza ha?
Interrogare la grande in geografia? Una punizione che non merito, primo perchè odio geografia, secondo perchè lei neppure l'ha studiata, quindi è oltremodo inutile.

Lavorare non ne parliamo. Quando già traballi poi, tutto ti si rivolta contro: il programma si arresta all'improvviso con un errore irreversibile,  la posta certificata si affolla di messaggi minacciosi e oscuri.  Fatico a leggere e a scrivere, le cose che amo, mi stanca tutto, in poche parole. Anche parcheggiare la macchina.

Cosa sarebbe esattamente un gioco da ragazzi?

No perchè giusto ieri sono entrata in macchina alle due e mezza per andare in ufficio, la macchina non si è neppure accesa. La batteria. Morta. Ci vorrebbe qualcuno con i cavi penso. Un secondo e si materializza mia sorella per caso. Ha i cavi in macchina, lo so, sembra incredibile. Riusciamo a mettere in moto, probabilmente rischiamo la scossa, forse la morte fulminea, però la macchina riparte. Eccolo il gioco da ragazzi.
Ma è un illusione che dura quindici minuti, quando arrivo in ufficio, e spengo la macchina, è finita.
Di fianco all’ufficio c’è un’officina, guarda te la coincidenza. E’ venerdì santo, sarà aperta? Resusciterà la mia batteria? E quanto ci metterà? devo anche andare a trovare un’amica all’ospedale.
Trenta minuti di orologio e ho una batteria nuova. Un gioco da ragazzi. Questo sì.
Mi precipito, già in ritardo, in una casa di cura sui colli dove c’è la mia amica, parcheggio regolarmente nelle strisce blu.
Quando esco, dopo un’ora, c’è una citroen grigia parcheggiata anche lei regolarmente, dietro di me, in un’area di sosta centrale. Mi domando cosa abbia mai bevuto il progettista di questo parcheggio, sempre che ce ne sia uno. Perché io, se è vero che non sono né Schumacher né Senna, da un parcheggio so uscire. Non da questo, però. E’ impossibile.
C’è Silvana. Avrà un settanta, non è una paziente, ma potrebbe tranquillamente. Prima scuote la testa, poi ci ripensa -La aiuto io- dice. E’ convinta che in due possiamo farcela. Io sto già cercando il numero del carro attrezzi. -Lei è giovane, vedrà che ci riesce- Insiste
Giovane? Mica tanto. Però Silvana ci crede. Molto. Mi conquista. Ci sono 25 gradi, oggi, domani che sarò al mare naturalmente pioverà, ma oggi si muore di caldo, quasi quasi chiamo un taxi. Per fortuna hanno inventato il servosterzo, altrimenti buttavo via le chiavi della macchina direttamente.
Sotto l'abile guida di Silvana e dietro al torvo sguardo dell'umarell di turno, dopo circa 25 manovre riesco ad uscire, esausta.  Un gioco da ragazzi? Boh!
Avrà sicuramente ragione lui, il mio ragazzo, dovrei affrontare tutto con un pizzico di spirito in più, un po’ di ottimismo, un po’ di grinta.
Oppure dovrei avere tre anni e costruire trattori, camion dei pompieri, e piste di treni.
Mamma facciamo un fire-truck ? Certo amore, cos’è un fire-truck? Non mi risponde, prende le formine di legno… una ruota, un’altra ruota, il telaio… un chiodino, un altro chiodino…la cabina…il martello…
Sei davvero bravo amore mio, é stupendo questo camion-truck, bravissimo!!
Lui alza gli occhi, mi guarda serio serio -mamma, è un gioco da ragazzi-

domenica 5 marzo 2017

IL CONFORTO

Era un po' di tempo che non facevo un viaggio in macchina con la mia ragazza e il solito assetto strategico: macchina murata, bambino reduce da gastroenterite violenta e cane in preda a sindrome da abbandono.
Il tempo passa, quindi la principessa ha acquisito di diritto il sedile anteriore accanto al guidatore, il seggiolino di Giorgio è stato posizionato nel sedile posteriore centrale come suggerito da mio padre e da un esperto di Unomattina, la ponga si nasconde sotto il mio sedile.Pronti, partiamo!
Prendiamoci questi tre giorni di neve,  sfidiamo la sala colazioni dell'hotel Panda, testiamo il passato di verdura della pizzeria Vienna e vediamo se tre giorni di montagna hanno una qualche parentela con la parola vacanza o se saranno settantadue ore di fatica e lavoro non retribuito.
Le previsioni meteo non aiutano, l'ostinazione del cucciolo di tre anni a non mangiare altro se non grattini in brodo di verdura, neppure.
Ma io guardo oltre, guardo alla necessità di cambiare un po' aria,  se non altro per uscire dallo schema del fine settimana classico: spesa all'ipermercato, giretto ai giardini, scivoli e giostre, riposino, quando va bene, altro giretto, magari in centro, con rapide puntate da Kiko e Sub Due, perché non Brandy? è qui dietro.
Ma non volevo parlare di questo, volevo condividere i centottanta minuti di chiacchiera pura con una tredicenne che di solito risponde a monosillabi, e che mi ha fatto un regalo dei più belli, senza consapevolezza alcuna.
Ha parlato di tante cose, serie e meno serie, dalla scuola alla ginnastica, dai vestiti ai trucchi, dalla musica che ascolta agli youtuber che segue; ha parlato, ha chiesto, ha ascoltato.
Mentre guido le guardo il profilo,  che sta diventando quello di una ragazza, i lineamenti più marcati, gli occhi più profondi, velati a tratti da un pensiero più scuro.
Poteva essere un'amica, che ti racconta del desiderio di fare un giro a Milano, che pensa al futuro prossimo e a quello lontano, che sogna di viaggiare, che pensa cosa potrà mai fare di lavoro, certo che lavorare in radio deve essere proprio bello.
E' polemica quanto basta, anche se si sforza di essere meno impulsiva e di ascoltare ogni tanto anche le idee degli altri. A volte funziona a volte no, quindi continuerò ad arrabbiarmi sulla chiusura mentale che ancora dimostra verso la musica vecchia, i film in bianco e nero, ed in generale verso tutto quello che non è del suo tempo.
Continuerò a mantenere la posizione anche sul fatto che Starbucks non potrà mai competere con il più basico dei nostri bar, ma non c'è nulla da fare , il wifi e la tazza con il nome per lei sono più importanti del sapore del caffè, che peraltro non beve.
Comunque vada questo fine settimana, oramai non ha più importanza, nella scala dei ricordi ci saranno i crackers sbriciolati nel mio letto, il ticchettio delle zampe del cane su questo simil parquet, e un vicino di camera che si è svegliato verso le sei e ha cominciato a chiacchierare amabilmente con qualcuno, ma magari era suo figlio tredicenne.
Però c'è anche una galleria, una canzone alla radio che parte, noi che ci cantiamo sopra, e continuiamo anche quando il segnale è sparito, ci guardiamo un secondo, è un gioco che facevano tempo fa, continuiamo a cantare, intanto accelero, se finisce la canzone siamo rovinate.
... Sarà che piove da luglio, il mondo che esplode in pianto .............. per pesare il cuore con entrambe le mani ci vuole coraggio e occhi bendati su un cielo girato di spalle la pazienza casa nostra il contatto il tuo conforto. 
per tre secondi mamma, però ci eravamo quasi