martedì 24 marzo 2020

BUONA GIORNATA



Eccoci in questa prima domenica di quarantena. Sono le undici e trenta e ho già fatto: due lavatrici, pulizie sommarie, passeggiata con cane, rigorosamente entro i cento mt da casa. L’impasto della pizza sta lievitando, le patate sono a lessare, la belga è in forno.
Siamo attivi anche sul versante ludico: abbiamo costruito un carro attrezzi, un trattore, una macchina della polizia, fatto quattro o cinque partite al gioco dell’oca, ci prepariamo per un collage artistico. E sono solo le undici e trenta.
Gli altri della casa hanno fatto chi una doccia, chi un giro in bicicletta sui rulli davanti alla finestra, è un attimo che si butti di sotto.
Ora ognuno in una stanza diversa, ognuno con un computer sulle gambe. I privilegiati dell’isolamento forzato, quelli col wifi, con quattro pc in casa, netflix, sky, prime video. Tutto.
Mi è venuto in mente ‘About a boy’, e quella idea fantastica di sezionare la giornata in unità di tempo. Mezz’ora mi sembra.
Fammi pensare: sessione di esercizi per la schiena, perfetto; piccoli lavori di giardinaggio da balcone, può andare; episodio di una serie, si sfora di dieci minuti ma fa lo stesso; torte, pizze, biscotti, attività in cucina in genere, va bene ma solo una volta al giorno, anche perché la farina, ho capito essere difficile da trovare. Una telefonata con le amiche? Immancabile. Anche i ritrovi su House Party, indispensabili ma non esageriamo, vedo messaggi alle sette del mattino: Pinco in in the house. Dormi ancora un po’ ti prego, così la giornata è più corta.
Poi l’alternativa c’è, ma bisogna essere forti, avere pelo sullo stomaco: affrontare i mostri, quelli che, se avessi tempo…
Il cambio degli armadi? Quale migliore occasione. Riorganizzare l’archivio icloud? Altro che mezz’ora, io non ce la farò neppure con la pandemia. Riordinare le foto digitali? C’è da mettersi a piangere. Organizzare una buona volta le playlist della musica? Ma perché?
Certo si potrebbero leggere Proust e Dostoevskij, però non bisogna avere figli intorno.
Appunto, i figli. Non ho ancora capito se averli in casa in questa quarantena ci salverà dall’autodistruzione, o se doverli intrattenere e non disporre liberamente del proprio tempo ce li renderà insopportabili.
Lo scopriremo insieme, però c’è una buona notizia, domenica prossima si torna all’ora solare: un’ora in meno da organizzare.
Buona giornata a tutti.

L'OPERA D'ARTE


Sarà perché sei nato durante Artefiera, sarà perché disegnare è la cosa che ti rilassa di più, la cura al nervosismo, il rifugio dai piccoli disagi di tutti i giorni.
Fatto sta che: ‘Attacco i miei disegni e poi vengo a mangiare’ mi è sembrata una frase normale, una di quelle a cui non dò peso, perché sono le sette di sera, sono stanca, siamo stati in un centro benessere, barra estetico, barra palestra, e hai rotto un vogatore, o forse, speriamo, è solo saltata una cinghia.
‘Ecco ho finito, vieni a vedere.’
Non posso neppure arrabbiarmi perché è talmente preziosa la fantasia con cui prendi la tua collezione di mezzi di trasporto (per far posto ala quale tra un po’ dovremo uscire noi) e dissemini corridoio, ingresso, camere, delle tue opere. E pazienza se le hai letteralmente incollate con vinavil ai muri, e pazienza se dovremo ridipingerli o tenerci le macchie di colla.
È la tua arte. Tu, sei un’opera d’arte.
Raccontare te è una delle cose più difficile che mi sia mai capitata, perché non bastano le parole, né gli aneddoti, né spezzoni di scene che ti vedono protagonista. Raccontare te non sarà mai come viverti, giorno per giorno, parola dopo parola, sguardo dopo sguardo.
Bisogna svegliarsi insieme a te, provare a scendere dal letto e sentire una mano minuscola che prova a fermarti, bisogna tentare di lavarti la faccia, i denti, di metterti uno stupido paio di jeans, e una banalissima maglietta bianca per capire davvero chi sei e cosa provi tu.
Bisogna prendere i pugni, i calci, le testate, poi le scuse, le carezze, le motivazioni, che riesci a mettere in fila come un adulto.
Bisogna prendere le tue rincorse, fare i tuoi tuffi, ascoltare le tue risate maldestre, le tue parole sospese, le tue storie surreali.
Bisogna guardarti quanto ti assenti nella tua bolla, quando escludi il resto del mondo, quando cerchi il silenzio e la quiete.
E poi bisogna amarti. Per l’essere unico che sei, per la dolcezza, la spontaneità, l’energia. E bisogna amare anche le tue paure, le tue nevrosi, le tue rigidezze. Solo combatterle non si può. Più amo le tue stranezze, più mi affeziono alle tue bizzarrie, più tu le lascerai per strada, via via. E quello che vuoi tenere, quello che non riuscirai a controllare lo terremo fra noi, lo divideremo con gli amici, lo vinceremo con gli abbracci.
Sii sempre la persona speciale che ti abita dentro. Questo l’unico augurio che ti voglio fare. Buon compleanno amore mio.

STRIZZOLO


È arrivato il calendario duemilaventi, quello che faccio tutti gli anni con le foto di quello appena finito. Cerco di mettere sempre tutti in modo equilibrato, nelle pose migliori: le vacanze, i weekend, le trasferte, i compleanni, ma anche il quotidiano, le facce vere, gli scatti divertenti.
Il calendario finisce per avere una sua voce, solo perché a un certo punto, verso agosto, mi stufo, e comincio a mettere le foto un po’ più a caso. Altrimenti rifletterebbe per intero il mio umore.
Per fortuna quest’anno l’umore è buono, o avrei già strappato la pagina di gennaio dove c’è una foto che mi invecchia di dieci anni. In bianco e nero, almeno quello. Con un cappello tipo Diane Keaton che è ciò che mi ha tratto in inganno.
Poi le rughe uno, prima o poi, le deve accettare, come i chili in più, l’insonnia, i capelli bianchi e gli occhiali da vicino.
Anche febbraio dice la sua, ho messo una foto insieme a Giorgio, un selfie: porto un cappello nero e gli occhiali da sole, però invece che Diane Keaton sembro Franco Califano. Ma è una questione di inquadratura.
A marzo migliora, e anche dopo. Però l’anno venturo staro più attenta. Magari potrei aggiungere qualche testo, battute varie che ci passiamo a tavola. Scampoli di discorsi, momenti di quotidianità, anche solo pezzi di conversazione.
-Ciao piccolino vado a lavorare.-
-Lavori al computer o vai al lavoro vero?-
-Vado fuori, ho un appuntamento. Comunque anche quando sto al computer…-
-Ma che dici mamma, non dire sciocchezze…-
Sono le risate che uno dovrebbe ricordare, dopo anni. Altro che foto. Che istantanee. E’ un’idea geniale, me lo dico da sola: piccolo compendio di risate. Meglio: raccolta indifferenziata di parole buttate.
-Che fai, lavori?-
-Si perché?-
-Così, vederti lavorare mi fa venire voglia di studiare-
Toccherà prendere un quaderno, tenerlo a portata di mano, annotare le parole, chissà se avrò costanza almeno in questa cosa. Si sa, all’inizio dell’anno uno ha mille progetti, voglia di fare, entusiasmo, energia. Il difficile è tenere duro quando l’entusiasmo cala.
Per esempio un giorno mi ero messa dal mattino presto a segnare su un foglio quante volte Giorgio dice mamma in una giornata. Pensavo di potere partecipare, che so? Al Guinness dei primati. Alle dieci eravamo già a trentacinque, poi mi sono stancata.
Comunque questi maledetti o benedetti social un po’ aiutano. Vedo che anche altri annotano frasi dei figli, citazioni di libri, o battute di film. Sembra nulla, ma in realtà il nostro tempo è scandito da queste cose. E queste cose io un giorno vorrei ricordare.
-Cosa c’è amore?-
-Niente. E’ che non ti voglio vedere mai più.-
-Meglio, perché stavo uscendo.-
Lo so questa non fa ridere, ma in un certo senso sì. Fa da contrappeso a quest’ altra che invece spacca a metà:
-Scusa mamma non volevo dire una cosa brutta.-
-Fa niente.-
-Posso darti uno strizzolo?-
-Un che?-
-Uno strizzolo.-
-Che cos’è?-
-È un abbraccio forte, fortissimo, che serve per dire quanto bene vuoi a qualcuno. Ti faccio vedere.-
Adesso piango. No scusate. Rido. Rido a più non posso.

IL PROFESSORE ASSORTO



Incontrare persone a me fa bene. Più sono strane, meglio è.
Oggi per esempio entro in un parcheggio custodito, c’è un piccolo ingorgo, persone che entrano, altre che aspettano alla baracchina, penso di fare una cosa intelligente e parcheggio in un buco dove chiaramente blocco altre auto, poi scendo e vado verso il parcheggiatore a consegnare la chiave.
Sono in fila dietro un signore distinto che paga diligentemente, poi sta a me:
-Lei signora?
-Io ho messo la macchina là a sinistra-dico
-E ha fatto molto male. La sposti-
Non ride, è molto serio, vorrei fare una battuta ma tira una brutta aria. Così rientro in macchina e la sposto.
Sono in ritardo, mi aspetta il colloquio con un professore di Giulia. Tipo bizzarro. Me lo aspettavo più vecchio, invece potrebbe avere la mia età, qualcosa in più.
I colloqui a scuola rischiano di essere inutili e anonimi: i professori, tutti, hanno un ipad, niente compiti da guardare, nessun errore segnato in rosso da commentare, i voti li si è già visti sul registro elettronico. Cosa sono venuta a fare? Ad ascoltare parole, sentire racconti, a cercare negli occhi di altri adulti un po’ di empatia.
Quest’uomo che incontro oggi mi parla di mia figlia e guarda fuori dalla finestra, oppure un punto indistinto dell’aula, per qualche minuto guarda per terra. I suoi occhi non riesco a incontrarli che per brevissimi istanti, scappa via subito. È inevitabile, la scrittrice che abita in me oramai guarda le persone con quella curiosità lì, quella che cerca personaggi, manie, volti, espressioni, gestualità.
Non capisco se sia timidezza, o un certo pensare assorto, quasi rivolgesse le considerazioni anche ad altri, infatti parla di ragazzi, non solo di mia figlia: ragazzi che hanno poca grinta, che subiscono ansia, che sia arrendono subito, che hanno paura di fallire. È una fase, dice, con il tempo si rinforzano, trovano la sicurezza, la direzione.
C’è un ché di tenerezza nelle sue parole, d’un tratto non mi importa dei voti sul registro. Avere professori intelligenti che guardano oltre è più importante di un voto. Quando ci salutiamo finalmente mi guarda negli occhi.
Eccomi fuori dalla palestra dove mio figlio fa arrampicata, siamo in ritardo, corriamo, nella bussola di ingresso c’è un uomo: Giorgio si ferma, lo guarda, lo abbraccia.
…Come ti chiami? Quanti anni hai? Quarantacinque? Come la mamma. E tu? Io ne ho cinque.
Poi schizza dentro, si toglie la giacca, ed è già sulla parete, mentre io mi siedo a un tavolino del bar e così fa Maurizio, l’uomo della bussola.
Lui ordina un panino, lo vedo seguire con gli occhi il mio ragazzino che corre dentro, fa un sorriso e commenta:
-Problemi di relazione certo non ne ha-
Arguto, Maurizio. A rischio di sembrare una che fa la piaciona in palestra, attacco bottone, il tema sono bambini, lo sport, l’arrampicata, e perché no? I problemi di relazione.
Chiacchiere da bar, finché mi esce questa frase:
-Ad arrampicare si deve essere in due, vero?- e mentre la pronuncio mi accorgo che suona esattamente da piaciona che ci prova.
Che ne sa Maurizio che intendevo altro? Che l’essere in due in uno sport per me è un impiccio, un freno, l’obbligo di chiamare qualcuno, una noia, e tendenzialmente preferisco stare da sola.
Chissà cosa ha capito, Maurizio. Dopo qualche altra battuta sui bambini sente l’esigenza inevitabile di dirmi che è un prete.
Quindi oggi in sequenza ho incontrato il parcheggiatore scorbutico, il professore assorto, e il prete scalatore.
C’è abbastanza materiale per un libro. Magari noir.

GASSMAN, VITTORIO



Per mia figlia se dici Gassman è Alessandro. Punto. È giusto così, appartiene al suo tempo, ha visto i suoi film, le fiction, le pubblicità. Lo ha visto dietro le quinte di X-Factor quando c’era il figlio che cantava.
Di Vittorio credo non sappia nulla, ne so poco anche io, lo ammetto. Mi ricordo le parti dei film in cui era più vecchio, La Famiglia, Sleepers. Forse ho visto Il sorpasso. Di recente sono capitata su Youtube e ho trovato Gassman che legge Montale. A lei non l’ho detto, non sa neanche chi sia, Montale.
Poi accade questa cosa, e rischio di passare per donna emotivamente instabile, quale probabilmente sono, ma ammetto di essermi commossa.
E’ tornata l’ora solare, si dorme un’ora in più, cioè qualcuno dorme un’ora in più. Io no, e neppure lei, a quanto pare, che arriva in cucina alle sette già vestita e pronta per la scuola. Oggi ha una verifica di italiano sulla Divina Commedia, i primi canti dell’Inferno.
Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo anche dire di averla letta tutti dall’inizio alla fine, di averla amata oppure odiata, e possiamo dissertare su questo grande capolavoro, ma diciamo la verità: è un libro che abbiamo solo sfiorato alle superiori, qualcuno lo ha approfondito, qualcuno lo ha dimenticato, qualcun altro ne ha sentito qualche pezzo interpretato da Benigni. La maggior parte.
È un poema meraviglioso, non c’è che dire, ma è difficile anche per grandi letterati e menti illuminate, figuriamoci per ragazzini di sedici anni che leggono poco e nulla, e d’altronde se gli metti un cartonato di Giulia del Lellis all’ingresso della libreria cosa ti puoi aspettare?
Dovete capire, questa mattina alle sette, lei arriva in cucina, si siede, prende un caffè e dice: Gassman è proprio bravo.
-Scusa?-
-Gassman, Vittorio Gassman-
Mi guarda come se non sapessi chi è, poi prende il telefono e mette YouTube.
-E’ dalle cinque che ascolto Gassman recitare l’Inferno, bravissimo.
Non saranno state proprio le cinque però ha dell’incredibile no? Voglio dire, è la stessa persona che qualche giorno fa mi ha detto di volere fare i provini per Il Collegio, e se non sapete cos’è, è meglio, la stessa che mi ha chiesto cosa vuol dire ‘scibile’.
Beh, io ho deciso di essere meno critica, di fare un esame di coscienza e dare il beneficio del dubbio, a questa ragazza, in primis, ma anche ad altri, ho deciso di scendere dal piedistallo, e di essere persino meno snob verso la loro presunta ignoranza.
Sarò sempre qui se avrà bisogno di un consiglio per un libro da leggere o un film da vedere, la ascolterò ripetere storia e di sicuro le spiegherò i vocaboli che non ha mai sentito e non usa abitualmente, avrò fiducia nella sua scelta di cultura, nelle sue possibilità di imparare.
-Come è andata la verifica su Dante?-
-Abbastanza bene-
-Mi fa piacere-
-Alla fine però non mi sentivo sicura, bisognava paralre della persona di Dante in sovrapposizione a Virgilio, avevo paura di ripetermi, di andare fuori tema, mi è venuta un po’ d’ansia.-
-Quindi?-
-Niente, ho fatto la verifica su Calvalcanti.
-Ma scusa, è tre giorni che studi Dante.
-E allora? Ho parlato anche un po’ di Dante.-
Quella cosa di dare fiducia? Scusate. Ritiro tutto.

IL SAPORE DELLA LIBERTA'


A chi mi dice scrivi poco, vorrei rispondere che per scrivere a volte ci vuole il buonumore, o almeno, per scrivere le cose che vorrei, ci vorrebbe un minimo di leggerezza. Che non ho.
Il periodo è difficile, la depressione è dietro l’angolo, la lacrima è sempre in tasca. Che ci volete fare? Capita a tutti.
E poi che faccio del mio meglio, rido quando posso anche quando non dovrei.
L’altro giorno mi ha chiamato un cliente mentre ero in macchina, il telefono l’aveva in mano Giorgio, che ha risposto naturalmente, ed è facile immaginare cosa possa dire un segretario di cinque anni. Comunque durante la telefonata, in viva voce, che ho cercato di tenere il più breve possibile per ovvie ragioni, il segretario si è inserito:
-Sì, sì, va bene, abbiamo capito, adesso metto giù, ciao ciao ciao, abbiamo capito.- Clic.
Ecco. Cliente perso. Pazienza.
Anche all’agenzia delle entrate cerco di passarmela, alla vecchia cara equitalia, che qualcuno diceva di avere abolito, ma io, che ero lì, non ho notato alcuna differenza, neppure negli arredi, neppure del personale, che sembrano arredi anche loro, un po’ grigi e un po’ verdi: le scadenze delle varie rottamazioni sono state in concomitanza di Pasqua, Natale , agosto, c’è gente che non va in vacanza da cento anni, mi dice l’impiegata alla quale approdo dopo due ore di attesa.
-Scarichi l’app- mi dice- così la prossima volta prende l’appuntamento e non deve aspettare tanto- continua- le ricordano pure le scadenze!-
Ah che bello!
-Mi dispiace signorina, faccio il possibile per restare di buonumore nella vita, l’applicazione della agenzia riscossione non rientra nelle opzioni. Mi scusi. Non me la sento. Preferisco la fila.
Già che sono in zona entro anche in Comune, magari se busso a tutte, ma dico a tutte le porte di tutti i dodici piani della torre A, forse incontrerò la persona che cerco.
Qualcuno disposto a prendersi la responsabilità di introdurre alla scuola materna un cibo non previsto nella complessa rete della refezione scolastica.
Ho letto il regolamento comunale, quello sanitario, ho chiamato il comune, lo Ies, la Ribò, la pedagogista, la psicologa dell’usl, la casa del giardiniere, poi in preda alla disperazione ho chiamato numeri a caso, tipo la Fiat, il Ministero degli Esteri, la Casa Bianca, niente, portare uno yogurt a scuola proprio non si può, va contro il protocollo. Ho deciso: modificare la refezione scolastica del comune di Bologna diventerà la sfida della vita.
Ma non si può fare per telefono.
Alla terza porta del quinto piano sono riuscita a ottenere qualcosa: una deroga temporanea, ho firmato un documento, una liberatoria in cui dichiaro che se un’ape pungerà un bambino in giardino, sarà colpa mia, se nel parcheggio della scuola c’è l’ingorgo è colpa mia, la signora con la panda e i due gemelli che è sempre in ritardo? Colpa mia, e dello yogurt che sotto la mia chiara e dichiarata responsabilità ho introdotto incautamente a scuola.
Vediamo che succede.
Poi ti chiedono come mai sei depressa. Però tra un delirio e l’altro ho trovato una soluzione, il classico gancio in mezzo al cielo: lo voglio condividere perché potrebbe aiutare altri nei momenti bui, di fatica, stress, avvilimento e tristezza insanabile: se non trovate amici, sport, passioni che vi sollevino il morale, c’è sempre l’episodio tre della prima stagione di How i met your mother. ‘Il sapore della libertà’. Dura solo quaranta minuti, ma è efficace. Prometto. Ho ricominciato a scrivere…

LECTIO MAGISTRALIS



Mio padre non ha mai cucinato regolarmente, voglio dire, non era quello che si metteva a fare un risotto, uno spaghetto alla carbonara, o un arrosto di vitello.
Sapeva fare solo dolci. Nei miei ricordi di bambina c’è una grande bacinella rossa come quelle per la biancheria, e lui che ci versa tonnellate di cioccolato fuso, chili di miele, poi mandorle, noci, cedro candito sminuzzato, e mescola, mescola, mescola con un cucchiaio di legno.
Prima di Natale quella grande bacinella si trasformava in trenta certosini, la metà venivano regalati ad amici e parenti, con l’altra metà arrivavamo fino a Pasqua inoltrata.
In casa mia si procede per passioni, un giorno i certosini e la loro pesantezza hanno arretrato per fare posto ai bomboloni fritti, e, devo dire, è stato un momento commovente dell’adolescenza, per poi deviare sulla produzione quasi professionale di raviole e pinze, pasta frolla ripiena di mostarda di mele cotogne.
Ora, che sono adulta, e in cucina non sono all’altezza ma ci provo, non mi sono mai avvicinata ai mostri sacri di mio padre, molto più comodo passare la domenica a prendere il vassoio pronto, che, fino a poco tempo fa, veniva preparato con precisione e regolarità.
Arriva oramai troppo presto il giorno in cui i miei figli si litigano l’ultimo pezzo di dolce, e si deve ripiegare su delle gocciole prive di affetto e passione.
Qual’è il punto?
Il punto è che mio figlio non ha mai mangiato un gelato, una tavoletta di cioccolato, un cucchiaino di nutella, però ama disperatamente le raviole con la mostarda. È un mistero, lo so, ma tant’è.
E non raviole comuni, comprate al forno, nel migliore forno di Bologna. No, signori. Quelle prodotte sul tagliere di mio padre, solo ed esclusivamente quelle.
Il nonno, brav’uomo, le cucina quando e come può, certo che gli ottant’anni appena compiuti e il pace maker appena applicato al cuore, hanno leggermente indebolito la sua attività di cuoco.
Eccoci al passaggio di testimone, è il momento, l’eredità è segnata, d’ora in avanti è la sottoscritta ad avere la responsabilità, e, a dire il vero, il gusto, di provvedere al nutrimento e alla sopravvivenza di zuccheri nelle vene di mio figlio. È giusto così.
Pare facile.
Vengo convocata dai miei genitori, è un rito di iniziazione, tutto è già pronto sul tavolo, cominciamo: sciogliamo il burro, aggiungiamo zucchero, uova, mescoliamo, facciamo un cratere di farina, cominciamo a impastare, con le mani? Macché. Con una spatola da ferramenta. Non si può discutere, la spatola è l’elemento fondamentale. Mi si dice. E spatola sia, devo suggerirla alla Parodi.
Stendiamo impasto con mattarello, lo spessore è a sentimento. Ma come? Il diametro dei cerchi invece è l’ingrediente segreto. Mi toccherà rubare uno dei calici rosa da acqua, non da vino, da casa di mia madre, lo so.
Posizionare i dischetti in file da cinque.
-Perché cinque?
-Che domande fai? Per contarle più in fretta.
-Ah, certo, con quel che abbiamo da fare!
Un cucchiaino di mostarda, ma un cucchiaino col manico lungo, da cocktail, e chi ce l’ha?
Via, si chiude, in forno.
-Hai le teglie di alluminio?
-Boh, sì.
-Come boh?
-Sì, sì, credo di averle.
-Però hai forno elettrico.- Smorfia di disappunto. Alzo le braccia.
Dodici minuti al primo controllo, non tredici, non undici, dodici. Venti minuti massimo consentito, certo con il forno elettrico…ancora disappunto, ma con un pizzico di insofferenza.
Lectio magistralis su dolci alla bolognese. Iginio Massari è un dilettante.

SEDICI



C’è un pezzo nel Giovane Holden in cui il protagonista parla delle varie cose che detesta, fra queste ci sono le persone che ripetono le cose due o tre volte, anche dopo che hanno già avuto ragione.
Holden mi avrebbe detestato: io lo faccio continuamente.
Così almeno mi ha detto Giulia in una delle varie discussioni che abbiamo avuto questa estate. Passare tanto tempo insieme, in formazione completa, in spazi ristretti e tempi dilatati, è qualcosa a cui, se ci penso bene, non siamo più abituati. Anche l’altalenante e variabile copertura di wifi, finisce per sbatterti l’uno contro l’altro e costringerti alle cose più semplici e banali. Come parlare.
Così parliamo, tutti, spesso uno sull’altro, ci sono risposte secche, occhiatacce, la voce, quella no, non l’alziamo mai.
Tutti vogliamo dire la nostra, ognuno vuole avere l’ultima parola. Io un po’ di più, lo ammetto.
Dicono che sia una fase inevitabile del rapporto madre-figlia: lo scontro, intendo, la frizione, qualcuno ci mette dentro anche la competizione. Io a questa non credo però. Già non sono competitiva di mio, e anzi, sono felicissima che lei sia giovane, bella, spensierata, vitale, sciocca quanto chiede la sua età.
Forse vorrei che mi assomigliasse un po’, tutto qui, per avere più punti di unione. Vorrei che le piacessero i miei libri, i miei film, vorrei che ridesse alle cose per cui rido io. Vorrei che le piacesse la musica che ascolto, invece ieri per radio c’era Santa Esmeralda, Don’t let me be misunderstood, con quell’assolo di chitarra e mani che battono a ritmo latino. E lei mi chiede:
-Ma a un certo punto cantano?-
Che vuoi dirle?
È che mi fa ridere. Davvero. E’ una persona simpatica, che fa belle battute, facce buffe, che scuote la testa, alza le sopracciglia per fare commenti che capisco perfettamente. E’ un po’ rigida, è vero, categorica, bianco o nero, ma diventerà più morbida, con il tempo.
Pure ansiosa, un po’ troppo. Pessimista? Forse.
Catastrofica? Almeno due volte l’anno.
Sincera e diretta. Al limite della diplomazia.
E’ una sorella che gioca, fa la lotta, ride, accudisce, insegna, ama. Tanto basta.
Un giorno mi ha detto che sono fortunata ad avere una figlia come lei, che mi devo baciare i gomiti. Io ho avuto un attimo di perplessità, perché è vero, la fortuna l’ho avuta, eccome, però qualcosa ho anche fatto, abbiamo fatto, per crescerla.
Volevo rispondere che è lei a doversi baciare i gomiti con due genitori così, poi ho ricacciato le parole in gola.
Un’ altra volta mi ha fatto piangere, magari ero io che ero stanca, dicendomi che ero pesante. Io ci ho letto dietro anche altro: che ero noiosa, vecchia, pedante, una pessima madre insomma, invece lei intendeva che la smettessi di torturarla con i compiti.
Per inciso, e a mia difesa, la scuola ricomincia tra venti giorni, e lei non ha fatto nulla se non una versione di latino e qualche pagina di inglese. Ha letto anche un libro. Troppa grazia.
Questa notte c’è una specie di accampamento in camera sua, siamo arrivate alle otto di sera, dopo circa quattordici ore di viaggio, e non è che fossimo in Brasile, e tac, alle nove c’era già la festa: amiche, patatine, arachidi, bibite, cocktail più o meno alcolici, aperol spritz, e via dicendo.
Ora sono su un treno per Riccione, ché
stare un giorno fermi a sedici anni è vietato.
Buona giornata amore mio. E buon compleanno.

Ti chiamo poi io quando riesco


Ricorda una frase adolescenziale di qualcuno vorresti fosse il tuo fidanzato e non è, invece è una figlia, che starà via quindici giorni, e, a quanto pare, chiamerà poco.
Devo averla detta anch’io questa frase, dopo avere fatto circa un’ora di fila alla cabina del telefono del campeggio di Praia a Mare, dove alla sua stessa e identica età andai con la mia amica Daniela, per i medesimi quindici giorni.
Potrei confondermi, ma ho un vago ricordo di Daniela che mi dice, mentre io aspetto con le monete in mano: “Puoi dire a tua madre di chiamare la mia e dire che sto bene?”
Ecco, semplificando, io penso che il mondo si divida in due categorie di persone: quelle che si ammazzano pur di non mancare la telefonata a casa, e quelle, più pratiche, che mandano un segnale di fumo e poi ciao.
Io faccio parte della prima categoria, Daniela della seconda. Questo spiega perché mia figlia è a due ore di volo e la sua a circa dodici, la mia ha un telefono, e la sua no.
Nonostante ciò, Giulia fa parte del secondo gruppo, una che non ha nostalgia di casa, del suo cane, di suo fratello. È probabile che le manchino il suo letto e il wifi, per il resto non pensa minimamente di usare l’alta tecnologia di cui dispone per inviare che so?, una foto della sua stanza. Io sono felice che sia così, e non sono neppure la madre chioccia che guarda il telefono ossessivamente, sono solo curiosa di sapere dove sia, chi incontri, come si svolga la sua giornata. È solo voglia di partecipare.
E poi c’è che l’unica vera telefonata ricca di dettagli è la prima, quando, per carattere e senso naturale di positività e ottimismo, la mia ragazza vede tutto grigio…”il posto è isolato, siamo in mezzo a un bosco, la mia compagna di camera non è arrivata, non c’è neanche un bar…”, dopo passa, naturalmente, magari il secondo giorno, quando si è ambientata, si fa coraggio e va a scoprire persone, luoghi. Solo che non lo dice, almeno a me, e mi tocca passare i restanti quindici giorni immaginandola alla Saint Paul School, aspettando che sbuchi fuori Suor Grey che la espelle, o Iriza che la bullizza.
Comunque non ho poi neanche tutto questo tempo per sfrangermi di malinconia, sono sotto sequestro, ormai da un paio d’anni, il mio rapitore ha cinque anni e mezzo, e, peggio, soffro di sindrome di Stoccolma.
Lui usa sistemi di tortura corporale e psicologica: quando meno me lo aspetto, prende la rincorsa, salta, raccoglie le ginocchia e mira allo stomaco. Banzaiiiiii, urla. E questo è nulla.
La mattina, quando si infila nel mio letto, io mi avvicino con le labbra ai suoi capelli, lo bacio, lo annuso, gli sussurro all’orecchio: “ti voglio un mondo di bene”
“Io no” ha risposto lui un giorno.
Eccoli i miei ragazzi. Poi mi amano, lo so, lui un po’ di più, anzi, è capace di dire cose struggenti, che annoto religiosamente in un quaderno da tenere lì per gli anni a venire, quando anche lui sarà diventato un ragazzo schivo e silenzioso.
Per ora, che posso, mi tengo stretta il mio sequestratore, e mi avvio verso la prima vacanza a due. Sono un po spaventata, lo ammetto. Se non mi faccio sentire per un po’, non vi preoccupate. Chiamo poi quando riesco.