venerdì 8 dicembre 2017

COME VORREI


Come vorrei avere quattordici anni, un’ora buca e un appuntamento al bar Venezia con le amiche.
Come vorrei, anche un giorno soltanto, prendere l’autobus, gli auricolari con l’ultima canzone di Coetz, scendere qualche fermata prima, bere un cappuccino, poi entrare a scuola, prima la gradinata, poi il corridoio, entrare nella mia aula e sedermi in fondo.
Nascondere il telefono sotto il banco, acceso e silenzioso.
Come vorrei invitare due amiche a casa il martedì pomeriggio, fare con loro un lavoro di arte, un po’ di merenda, e poi buttarci sul letto a chiacchierare.
Come vorrei dare una festa sabato sera. Io e la mia migliore amica, una piccola sala, un deejay, una trentina di amici, forse qualcuno in più, mia mamma al bar di fronte a buttare un occhio. Qualcuno arriva con i tacchi, ignorando come  ci si cammini, e quanto male possano fare, qualcuno più furbo, nello zaino ha messo ha un paio di all-star che non si sa mai.
Come vorrei andare a letto felice verso l’una, e dormire di un sonno così profondo da non sentire il furgone dell’Hera che passa alle sei di mattina, svegliarmi verso le undici e mettere orgogliosa la maglietta di Stranger things, provare tutti i miei nuovi trucchi, pranzare con i miei genitori e correre alla partita.
Come vorrei avere una versione di latino domani, o una verifica di geo-storia, anche un esercizio sugli insiemi mi piacerebbe.
Come vorrei essere una ragazzina e non avere freddo mai, magari solo un po’ allo stadio il 3 dicembre. Come vorrei non mettere la canottiera, non avere mal di schiena, e non vedere nello specchio il pallore della stanchezza.
Come vorrei tornare nel vicolo Broglio di trent’anni fa, con la minigonna di jeans, le toppe di naj-oleari, le calze col pizzo e i camperos, entrare timida timida all’Art, e ballare.
Ma basterebbe anche essere su una vespa cinquanta special, truccata con un motore settantacinque, caricata, senza casco perché ancora non è obbligatorio, su per via di Casaglia, magari una sera di giugno, la scuola appena finita, in direzione Fri-go.
Come vorrei.
Ma è una malinconia che dura solo il tempo di questa giornata, perché compio quarantaquattro anni, e avrei anche fatto finta di niente, me ne stavo zitta zitta, neanche una candelina, ma non è possibile in questo mondo social. Un algoritmo bizzarro di FB mi invia una notifica, per ricordarmi, a me, proprio a me, che oggi è il mio compleanno. Così, nel caso me lo fossi dimenticato. Che devo fare? Andare sul mio diario e scrivermi un messaggio di auguri? Va bene, Auguri. scrivo un post. Amen

NO,NIENTE


Comunque ventura si deve dimettere-
-Beh anche Tavecchio…-
-Poi non ha convocato Verdi, uno scandalo-
-E non hanno neanche avuto il coraggio di presentarsi alle telecamere, vigliacchi-
-E Darmian? Lo ha fatto giocare da ala invece che a centrocampo, proprio un incompetente-
Io mia figlia la amo così tanto che mi tocca parlarci anche di calcio, di modulo, schema tattico, 4-4-3 , 4-3-2-1, più altre cose che francamente non capisco, ma si sa, quando perde l’Italia siamo tutti un po’ allenatori. 
Ora che è più grande, più impegnata, mi accorgo che mi manca. Anche dieci minuti in macchina, io e lei, hanno il gusto dell’intimità. 
E’ poco, lo so anch’io, mi devo inventare qualcosa.
La vado a prendere alle quattro e mezza, le faccio fretta come al solito, gli zainetti sono già pronti. Guanti, torcia elettrica, bandana, berretto. 
-Quanto dura?-chiede
-Un’ora e mezza, più o meno-
-Ah, quindi arriviamo a casa alle otto- 
-Magari un po’ prima, perche?-
-No niente-
No, niente: è la sua risposta preferita. La usa come intercalare.
-Non ho sentito, puoi ripetere?- No niente
-C’è qualcosa che non va?- No niente
-A che ora torni?- No niente - A che ora torni, ho chiesto? - Ah, alle sette, scusa.
Il No niente di oggi vuol dire che domani ha una verifica di scienze, che deve ancora ripassare, dopo qualche esercizio di grammatica e prima di X-Factor.
-Se vuoi vado da sola-
-No, ripasso dopo. Le calosce le hai trovate?-
-Sì, le ha comprate la nonna, sono in macchina-
Calosce nere, normalissime, assomigliano a quegli stivali in gomma che vanno pure di moda, non capisco perché le guardi con quell’aria disgustata.
-Ma dobbiamo anche camminare per strada?-
-Non lo so. Cosa c’è? hai paura di incontrare qualcuno?-
In effetti forse ha ragione, calosce nere, caschetto giallo, torcia, la mamma di fianco, una manciata di persone uguali a noi, tra ragazzini, signore attempate, qualche padre, qualche figlio, la guida davanti a tutti con il casco e il microfono ad archetto.
Sembriamo i giapponesi in gita. 
Invece siamo un gruppetto di bolognesi in visita ai sotterranei della città, si parte da via Marconi, sotto via Riva Reno, piazzetta della Pioggia, poi via Falegnami, via Augusto Righi, tutto sotto terra, dove scorrono i canali, tranne oggi perché ci sono i lavori di manutenzione.
Tutto molto bello, non fosse per i quaranta minuti di lezione sull’ingegneria idraulica, la grande turbina, la vasca di sfioro, il generatore di emergenza, il fenomeno della cavitazione, e lei che mi guarda, in una mano la torcia, nell’altra il casco, e due occhi sconsolati che mi dicono: cosa ci facciamo qui? 
La incenerisco con lo sguardo, ma in cuor mio spero anche io che questa lezione finisca tra un minuto, o mi odierà per sempre.
Poi la guida richiama la nostra attenzione:
-Mi raccomando-dice- il salto tra il Cavaticcio alto e quello basso è di quattordici metri, e c’è un affaccio senza parapetto, quindi non avvicinatevi-
Ecco, pure pericolosa sta stupida gitarella. 
-Mamma, ma se inciampo e casco giù?-
-Tranquilla, mi butto dietro di te-
-E Giorgio? Vabbè, cerchiamo di stare attente. 
In realtà ci divertiamo, in questi tunnel bui, illuminati dalle nostre torce, camminando a testa bassa per non sbattere la testa, a fotografare i gamberi di fiume intrappolati nelle pozze. Guardiamo la strada dal di sotto, dalle griglie su cui saremo passate centinaia di volte in macchina. 
Per una volta siamo dentro il canale che abbiamo visto dalla benedetta finestra di via Piella, dove ho scoperto che un tempo lavavano le vacche prima di venderle in piazzola, incuranti che pochi metri più in là, lavassero anche i morti. 
Quest’ultimo pezzo, per fortuna salva tutta la giornata, usciamo da un cancello e finalmente siamo di nuovo all’aperto. 
Possiamo toglierci il casco, le calosce infangate, e quasi corriamo al parcheggio dove abbiamo lasciato la macchina. Non lo ammetterà mai, ma si è divertita.
Purtroppo la quotidianità è quel che è, siamo sempre in macchina, un giorno di pioggia incessante. 
-Perchè quella faccia?-
-No niente-
-Dai, cosa è successo?-
-Niente, ti ricordi la verifica di scienze? Avrei preso cinque
-Ah, mi spiace, recupererai…colpa mia, sei arrabbiata? Ohi sei arrabbiata? 
-No, niente.