martedì 25 giugno 2019

THIERRY

Cara mamma di Thierry, non so nulla di te se non che sei francese, e che hai una figlio di quindici anni dagli occhi solari e il sorriso caldo.
Sarai una mamma come me, probabilmente ti lamenti anche tu delle stesse banali cose: la camera in disordine, il telefono sempre in mano, le serie Netflix in cui si si sono persi qua e là i nostri figli.
Farai del tuo meglio, come me, come tutti, per sopportare le loro risposte a monosillabi, i loro sbalzi umorali, senza che nessuno mai si accorga di quanto sia faticoso mantenere l’armonia.
Invece oggi succede questo.
Siamo ai giardini, in quella piazzola vicino alla baracchina dei gelati, dove Davide, da anni, organizza il mini circuito delle macchine elettriche, e l’anello dove corrono i grilli.
Mio figlio, che ha cinque anni, e non ha esattamente una guida sicura, è quello con il casco giallo, quello che frena di colpo, quello che taglia la strada, quello che guida guardando indietro, quello che si diverte nei fuori strada sull’erba, quello che, durante il giro, mima il rumore delle auto da formula uno, meeeeeeee, meeeeeeeee.
Io sono quella sulla panchina che urla ‘vai dritto’, guarda avanti, il più delle volte ho lo sconforto in faccia, e lo so che non dovrei, ma è più forte di me.
I grilli si pagano a tempo, venti minuti mi sembra un tempo sufficiente, il bambino mi pare stanco e sudato. Come al solito gli dico: ‘ultimo giro’, e come al solito finge di non sentirmi.
Al terzo ultimo giro mi pianto in mezzo alla pista e con la forza prendo il grillo e lo riporto fuori dall’anello.
Parte il solito cinema, url, pianti. Alla gente paiono capricci, un po’ lo sono un po’ no.
Lo sconforto sulla faccia è sempre lì, oramai lo domino molto bene. Semplicemente sto lì e attendo che passi la crisi. Passa sempre, e passa più in fretta se non cedo al panico e agli sguardi giudici delle persone intorno.
Il piccolo mi lancia il casco con tutta la rabbia che ha, ‘Sei un mostro’ - dice.
Paro il colpo con destrezza, dico ‘Si sono un mostro’.
Ti sembrerò una pazza, ma ti scrivo perché proprio in quel momento, quando lo sconforto ha lasciato il posto a sommessa rassegnazione, dietro di me c’è un gruppetto di ragazzi, vogliono fare una gara di grilli, avranno quindici o sedici anni, e ce n’è uno che mi si avvicina, ha i capelli corti biondo castano, gli occhiali da sole, e questo sorriso da padrone del mondo.
Mio figlio si è rintanato nella capanna di Davide, che sembra una ferramenta, e dice che vuole vivere lì con lui, per sempre.
Il tuo ragazzo entra, si toglie gli occhiali, chiede a mio figlio il nome, qualche altra cosa, gli dice ‘ti ho visto, vai forte. Dammi un cinque.’
Giorgio glielo dà, poi esce dalla capanna, è allegro e sorridente. Del fatto che sono un mostro, non si ricorda, oppure mi ha perdonato. Gli allungo la mano, lui la prende. Io pago e poi vado a salutare questo ragazzo che non sa nulla di me, delle mie fatiche quotidiane, di mio figlio.
Potrei scrivere altre cento righe piene di retorica, ma non lo farò.
Vorrei solo che questa lettera rimbalzasse nella rete e arrivasse fino a te, perché a me piacerebbe saperlo se mia figlia avesse, un giorno, con leggerezza e candore, fatto un gesto minuscolo, che invece è di più, molto di più.

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